Liturgia fiscale

La caccia | Trasmessa il: 12/17/2006



Che Gesù Cristo esortasse i suoi seguaci e il popolo tutto a pagare di buona lena le tasse è un’estrapolazione abbastanza audace da quel famoso passo di Matteo (XXI, 22) in cui il Maestro, interrogato da certi farisei ed erodiani sull’opportunità, appunto, di farlo, prende una moneta, osserva che reca l’effigie di Cesare (come a dire dell’imperatore in carica, che doveva essere, mi sembra, Tiberio) e ne conclude, com’è noto, che bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio.  L’estrapolazione, vi dicevo, è audace perché Gesù, in definitiva, sulle tasse non si pronuncia, visto che ha capito benissimo che la domanda era capziosa, che i suoi interlocutori erano pronti, in caso di risposta affermativa, a bollarlo come asservito ai dominatori Romani, o, in caso contrario, a denunciarlo come pericoloso eversore, per cui “riconosciuta la lor malizia”, se la cava con una frase di bell’effetto che può voler dire tutto o niente, ma che in sostanza si riduce a una variante del ben noto “Perché lo chiedete a me?  Io non c’entro”.  Della Sua tecnica, in effetti, devono aver fatto tesoro quei dirigenti della Margherita usi a spiegare che il rifiuto del riconoscimento giuridico delle unioni di fatto non significa disconoscimento dei diritti degli individui che le compongono.  Anche a loro, in effetti, si addice l’epiteto che il Salvatore lanciò, in quell’occasione ai suoi interlocutori:  “Razza di ipocriti”.
        È interessante notare, comunque, come la lezione evangelica corregga esplicitamente il punto di vista espresso da San Paolo nella Lettera ai Romani (XIII 1-7), un testo che, probabilmente, precede di qualche anno quello di Matteo.  Lì il problema dei rapporti tra i fedeli e l’autorità, anche sul piano fiscale, si pone in termini tutt’altro che ambigui, a partire dall’osservazione per cui “ogni persona” deve essere “sottoposta alle podestà superiori, perciocché non vi è podestà se non da Dio e le podestà che sono sono da Dio ordinate”, per cui “convien di necessità essergli soggetto” e bisogna, per questa cagione, pagargli i tributi, “perciocché essi son ministri di Dio”.  Così, almeno, nella traduzione cinquecentesca di Giovanni Diodati, uno studioso che alla Bibbia non era solito far dire quello che di volta in volta gli conveniva.   Paolo e Matteo, in realtà, esprimono due punti di vista confliggenti, il cui intrecciarsi si può riconoscere in tutto il Nuovo Testamento e sul quale la dottrina, soprattutto di scuola protestante, si è arrovellata parecchio.  L’argomento esula dal mio campo di competenza, ma è chiaro comunque che il contrasto sempre ricorrente tra le esigenze, diciamo pure, “di base” e un atteggiamento teso a una stretta coordinazione con le istanze proprie dell’autorità politica accompagna la storia del Cristianesimo sin da quei primi, lontanissimi anni.
        I governanti, naturalmente, tenderanno a essere piuttosto dalla parte di San Paolo.  Così il Presidente Prodi, partecipando, presso l’Istituto di Scienze Religiose di Bologna, a un convegno dedicato alla figura di don Giuseppe Dossetti (“Repubblica”, 12.12.’06) non ha saputo resistere alla tentazione di citare un passaggio in cui il compianto fondatore della sinistra democristiana, partendo appunto dall’Epistola ai Romani, spiega come “lo Stato che impone ‘gravi sacrifici’ per una reformatio del corpo sociale e una maggiore aequalitas tra gli uomini vede ‘finalmente profilarsi i liturgici di Dio.”  Sì, perché i “ministri di Dio” del Diodati (che sono ministri Dei anche nella Vulgata) possono essere visti, con un minimo sforzo di tensione semantica, come dei veri e propri “operatori liturgici”, il che conferisce all’invito a pagare il tributo una autorevolezza e una pregnanza tutte peculiari.  “È una pagina” ha concluso Prodi “che mi è sempre presente.  Mi accompagna in questo tempo della mia vita.  In special modo in questi giorni e in queste ore.”
        Una rivendicazione, dunque, esplicita e senza reticenze delle virtù salvifiche dell’imposizione fiscale, cui Prodi, che non dimentica di essere sotto accusa da parte dell’opposizione in quanto tassatore insaziabile, si è lasciato andare nella giuliva consapevolezza che i suoi avversari potranno dire le cose più sgradevoli su Visco, ma difficilmente se la prenderanno con San Paolo.  E che attraverso San Paolo, naturalmente, si possono far passare, alla faccia del liberismo e del pensiero neocon, concetti quali la reformatio del corpo sociale e l’aequalitas tra gli uomini, che comunque, espressi in latino, sembrano meno pericolosi che in volgare.
        Noi, a essere proprio sinceri, ci sentiamo più vicini a Matteo.  Non tanto per l’incoercibile desiderio di dare a Cesare quel che è di Cesare, senza neanche la garanzia che Cesare ci restituisca quel che è nostro, ma perché ci inquieta parecchio quell’affermazione sull’origine divina delle potestà e sul relativo obbligo di obbedirgli senza discutere.  San Paolo, certo, aveva i suoi buoni motivi per tenersi buoni i dominatori e assicurar loro che mai e poi mai i cristiani gli avrebbero creato problemi (vedeva lontano, lui, e forse presagiva il futuro “costantiniano” della organizzazione che stava fondando), ma erano, appunto, motivi suoi.  A noi, dall’Illuminismo in poi, il problema dell’origine del potere lo hanno spiegato in termini un po’ diversi.  Per cui, forse, sarebbe meglio che Prodi, che è a capo di una maggioranza formalmente laica e dovrebbe ricordarsene anche quando va a parlare all’Istituto di Scienze Religiose, lasci perdere l’identificazione dei funzionari delle Finanze con gli operatori liturgici e cerchi piuttosto, come usa in tutti i paesi moderni, di far pagare le tasse anche al clero.  I suoi amici vescovi strilleranno a pieni polmoni, ma l’aequalitas è l’aequalitas e non si può avere tutto nella vita.

17.12.’06

Nota

Per la datazione del Vangelo secondo Matteo e dell’Epistola ai Romani, si veda Manlio Simonetti, Letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni-Accademia, Firenze Milano, 1969,  pp. 15 e 21.