Che Gesù Cristo esortasse i suoi seguaci
e il popolo tutto a pagare di buona lena le tasse è un’estrapolazione
abbastanza audace da quel famoso passo di Matteo (XXI, 22) in cui il Maestro,
interrogato da certi farisei ed erodiani sull’opportunità, appunto, di
farlo, prende una moneta, osserva che reca l’effigie di Cesare (come a
dire dell’imperatore in carica, che doveva essere, mi sembra, Tiberio)
e ne conclude, com’è noto, che bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare
e a Dio quel che è di Dio. L’estrapolazione, vi dicevo, è audace
perché Gesù, in definitiva, sulle tasse non si pronuncia, visto che ha
capito benissimo che la domanda era capziosa, che i suoi interlocutori
erano pronti, in caso di risposta affermativa, a bollarlo come asservito
ai dominatori Romani, o, in caso contrario, a denunciarlo come pericoloso
eversore, per cui “riconosciuta la lor malizia”, se la cava con una frase
di bell’effetto che può voler dire tutto o niente, ma che in sostanza
si riduce a una variante del ben noto “Perché lo chiedete a me? Io
non c’entro”. Della Sua tecnica, in effetti, devono aver fatto
tesoro quei dirigenti della Margherita usi a spiegare che il rifiuto del
riconoscimento giuridico delle unioni di fatto non significa disconoscimento
dei diritti degli individui che le compongono. Anche a loro, in effetti,
si addice l’epiteto che il Salvatore lanciò, in quell’occasione ai suoi
interlocutori: “Razza di ipocriti”.
È
interessante notare, comunque, come la lezione evangelica corregga esplicitamente
il punto di vista espresso da San Paolo nella Lettera ai Romani (XIII 1-7),
un testo che, probabilmente, precede di qualche anno quello di Matteo.
Lì il problema dei rapporti tra i fedeli e l’autorità, anche sul
piano fiscale, si pone in termini tutt’altro che ambigui, a partire dall’osservazione
per cui “ogni persona” deve essere “sottoposta alle podestà superiori,
perciocché non vi è podestà se non da Dio e le podestà che sono sono da
Dio ordinate”, per cui “convien di necessità essergli soggetto” e bisogna,
per questa cagione, pagargli i tributi, “perciocché essi son ministri
di Dio”. Così, almeno, nella traduzione cinquecentesca di Giovanni
Diodati, uno studioso che alla Bibbia non era solito far dire quello che
di volta in volta gli conveniva. Paolo e Matteo, in realtà, esprimono
due punti di vista confliggenti, il cui intrecciarsi si può riconoscere
in tutto il Nuovo Testamento e sul quale la dottrina, soprattutto di scuola
protestante, si è arrovellata parecchio. L’argomento esula dal mio
campo di competenza, ma è chiaro comunque che il contrasto sempre ricorrente
tra le esigenze, diciamo pure, “di base” e un atteggiamento teso a una
stretta coordinazione con le istanze proprie dell’autorità politica accompagna
la storia del Cristianesimo sin da quei primi, lontanissimi anni.
I
governanti, naturalmente, tenderanno a essere piuttosto dalla parte di
San Paolo. Così il Presidente Prodi, partecipando, presso l’Istituto
di Scienze Religiose di Bologna, a un convegno dedicato alla figura di
don Giuseppe Dossetti (“Repubblica”, 12.12.’06) non ha saputo resistere
alla tentazione di citare un passaggio in cui il compianto fondatore della
sinistra democristiana, partendo appunto dall’Epistola ai Romani, spiega
come “lo Stato che impone ‘gravi sacrifici’ per una reformatio del corpo
sociale e una maggiore aequalitas tra gli uomini vede ‘finalmente profilarsi
i liturgici di Dio.” Sì, perché i “ministri di Dio” del Diodati
(che sono ministri Dei anche nella Vulgata) possono essere visti, con un
minimo sforzo di tensione semantica, come dei veri e propri “operatori
liturgici”, il che conferisce all’invito a pagare il tributo una autorevolezza
e una pregnanza tutte peculiari. “È una pagina” ha concluso Prodi
“che mi è sempre presente. Mi accompagna in questo tempo della mia
vita. In special modo in questi giorni e in queste ore.”
Una
rivendicazione, dunque, esplicita e senza reticenze delle virtù salvifiche
dell’imposizione fiscale, cui Prodi, che non dimentica di essere sotto
accusa da parte dell’opposizione in quanto tassatore insaziabile, si è
lasciato andare nella giuliva consapevolezza che i suoi avversari potranno
dire le cose più sgradevoli su Visco, ma difficilmente se la prenderanno
con San Paolo. E che attraverso San Paolo, naturalmente, si possono
far passare, alla faccia del liberismo e del pensiero neocon, concetti
quali la reformatio del corpo sociale e l’aequalitas tra gli uomini, che
comunque, espressi in latino, sembrano meno pericolosi che in volgare.
Noi,
a essere proprio sinceri, ci sentiamo più vicini a Matteo. Non tanto
per l’incoercibile desiderio di dare a Cesare quel che è di Cesare, senza
neanche la garanzia che Cesare ci restituisca quel che è nostro, ma perché
ci inquieta parecchio quell’affermazione sull’origine divina delle potestà
e sul relativo obbligo di obbedirgli senza discutere. San Paolo,
certo, aveva i suoi buoni motivi per tenersi buoni i dominatori e assicurar
loro che mai e poi mai i cristiani gli avrebbero creato problemi (vedeva
lontano, lui, e forse presagiva il futuro “costantiniano” della organizzazione
che stava fondando), ma erano, appunto, motivi suoi. A noi, dall’Illuminismo
in poi, il problema dell’origine del potere lo hanno spiegato in termini
un po’ diversi. Per cui, forse, sarebbe meglio che Prodi, che è
a capo di una maggioranza formalmente laica e dovrebbe ricordarsene anche
quando va a parlare all’Istituto di Scienze Religiose, lasci perdere l’identificazione
dei funzionari delle Finanze con gli operatori liturgici e cerchi piuttosto,
come usa in tutti i paesi moderni, di far pagare le tasse anche al clero.
I suoi amici vescovi strilleranno a pieni polmoni, ma l’aequalitas
è l’aequalitas e non si può avere tutto nella vita.
17.12.’06
Nota
Per la datazione del Vangelo secondo
Matteo e dell’Epistola ai Romani, si veda Manlio Simonetti, Letteratura
cristiana antica greca e latina, Sansoni-Accademia, Firenze Milano, 1969,
pp. 15 e 21.