Linguistica ecclesiale

La caccia | Trasmessa il: 04/17/2005



Quali doti si possono e devono richiedere a un futuro papa?  Zelo pastorale?  Fervore evangelico?  La capacità di infondere nella Chiesa lo spirito necessario per reagire alle sfide del terzo millennio?  Oppure, tenendoci più terra terra, quella di mediare, con sagacia di politico e paterna sollecitudine, tra le mille istanze che quella organizzazione non può che esprimere?  Di tutto questo e di altro, probabilmente, il candidato ha bisogno, a sgomento degli elettori che stanno per riunirsi in conclave.  È un algoritmo complicato quello che devono comporre quei poveri porporati, specialmente se si considera il fatto che non condividono al cento per cento le stesse priorità di valori.  E se è vero che tutti possono trarre conforto, nel momento difficile, dalla fiducia nello Spirito Santo, sanno anche assai bene che l’Onnipotente agisce, in questo basso mondo, solo per causas secundas e che la Sua supervisione non esime nessuno, cardinali compresi, delle proprie personali responsabilità.
        Su una cosa, però, sono quasi tutti d’accordo, almeno stando alle indiscrezioni dei vaticanisti.  Il futuro pontefice, ci hanno spiegato, dovrà sapere le lingue.  Potrà essere, a seconda di come andranno le cose, conservatore o progressista, paolino o giovanneo, gesuita o salesiano, figlio dell’Europa o del Terzo Mondo, ma nessun candidato che non sappia esprimersi disinvoltura in uno o più idiomi che non siano il suo ha qualche seria possibilità di arrivare sul Soglio di Pietro.  Di fatto, qualche aspirante che sembrava piazzato piuttosto bene è già stato messo da parte per via delle sue deficienze linguistiche.
        Visto che lo hanno ripetuto in tanti, sarà vero.  Ma è curioso, a pensarci.  Che sapere le lingue sia indispensabile per fare carriera è un luogo comune della cultura corrente, come ben sanno le famiglie che devono sottostare a esosissimi esborsi per spedire il figlio liceale a Barnemouth o a Torquay o dovunque si organizzino degli inutili corsi estivi di inglese, ma sembra strano che il principio si applichi automaticamente ai dignitari ecclesiastici.  La loro, in senso stretto, non è una carriera e le doti che richiede, comunque, dovrebbero essere altre.  E poi sono tali e tante le cause che rendono difficile il comunicare in lingua straniera a degli individui anche dottissimi e ben preparati sul  piano linguistico, che sembra ingiusto farne una discriminante: l’unica, per di più, che finora sia stata espressamente avanzata.
Il papa, in ultima analisi, è un vescovo e dei vescovi la dottrina afferma espressamente che, pur essendo i successori degli apostoli, non ne ereditano il dono delle lingue.  Devono, quindi, studiarsele.  Ma c’è modo e modo, ovviamente: gli immediati predecessori di Karol Wojtyla venivano dalla carriera diplomatica e padroneggiavano, quindi, l’algido francese in uso nelle cancellerie, ma nessuno di loro era un vero e proprio poliglotta e, tra i pontefici del secolo scorso ce n’è stato almeno uno che, quanto a lingue vive, non andava oltre l’italiano.  E il bello è che costui, papa Pio X, al secolo Giuseppe Sarto, nel conclave in cui fu eletto (quello del 1903, sulle cui vicissitudini siamo particolarmente informati, perché parecchi protagonisti ne riferirono in varia sede e ne fu tratto persino un film), cercò di rifiutare la nomina protestando proprio la sua ignoranza in merito, ma gli risposero che il latino bastava e avanzava e lo elessero lo stesso, il che, considerando il fatto che sarebbe stato il papa della reazione antimodernista non fu forse una gran idea, ma sono cose che capitano.
        Nel XXI secolo la situazione, naturalmente, è diversa.  Nel 1903 la chiesa aveva una sua lingua ufficiale, appunto il latino, la impiegava in ogni occasione pubblica e tutti gli aspiranti sacerdoti dovevano studiarsela al seminario, se no all’ordinazione non ci arrivavano di certo.  Problemi di comunicazione di massa se ne ponevano pochi: il messaggio pastorale filtrava in lingua latina dalla Curia in giù, finché non giungeva al livello in cui poteva essere comunicato ai fedeli in volgare.  Posto al culmine di quella sorta di piramide sacrale e linguistica, il pontefice era, a tutti gli effetti, una figura remota, che, nella sua diocesi (e non altrove) i fedeli potevano forse intravedere ogni tanto, da lontano, ma la cui voce udivano risuonare soltanto nelle occasioni liturgiche solenni.  Oggi, si sa, il papa è uno dei divi del grande circo mediatico, la sua figura, via etere, è sotto gli occhi di tutti ed è naturale che lo si voglia anche sentire parlare.  Questo significa, naturalmente, sottolineare il suo ruolo e la sua figura a spese della comunità e della struttura di cui fa parte, appiattire su una figura carismatica la complessa realtà del cattolicesimo organizzato, innestare un processo che sa un poco di idolatria e molto di culto della personalità, ma così, in ogni campo, va il mondo.  Alle masse, si accalchino personalmente ai suoi piedi o siano radunate davanti al teleschermo, il papa deve potersi rivolgere direttamente.
        Sì, ma in che lingua?  Il problema è meno futile di quanto non paia.  Di masse al mondo ce ne sono tante e si esprimono nei modi più disparati.  Le lingue più parlate su questa terra sono, nell’ordine, il cinese, l’hindi e il bengali, ma non credo che il papa debba preoccuparsi di una competenza in tal senso.  L’unico idioma a vasta diffusione che riguardi delle comunità di tradizioni cattoliche è lo spagnolo, ma non mi risulta che i candidati più accreditati siano ispanisti di vaglia.  Di cardinali che sappiano il russo non devono essercene molti, e in ogni caso quell’area linguistica è ben presidiata dalla concorrenza, nel senso che il Patriarcato di Mosca sta ben attento a impedire infiltrazioni papiste in casa sua.  Le lingue dell’Europa occidentale nei paesi di origine contano solo poche centinaia di milioni di parlanti, in gran parte non cattolici e se apparentemente sono diffuse anche nel Terzo Mondo (in Africa, per esempio, hanno un ruolo ufficiale quasi dovunque), di solito vi rappresentano solo un esile superstrato a uso delle classi dirigenti locali.  E così via.
        In definitiva, la lingua straniera che un candidato serio non può permettersi di ignorare (oltre, forse, all’italiano nel caso dei non italiani) resta l’inglese.   E si capisce: è la lingua della politica, della diplomazia, delle comunicazioni di massa, dei rapporti internazionali.  La Chiesa è un’organizzazione mondiale, il suo capo deve potersi rivolgere da pari a pari ai grandi del mondo e i suoi membri, al vertice o alla base, in qualche modo devono pur comunicare tra loro.  Il fatto che l’inglese, oggi, non sia esattamente retaggio delle masse diseredate, ma piuttosto l’espressione linguistica dei loro nemici, che la sue fortune siano così strettamente legate a quelle della sola potenza imperiale, non esime dalla necessità di sapersene servire
        Ma visto che dimmi con chi parli e ti dirò chi sei, forse l’aver abbandonato il latino non è stata una mossa troppo giudiziosa.

17.04.’05