Non so se abbiate seguito, all’inizio della settimana passata, la dotta
polemica che, dopo la manifestazione islamica di domenica scorsa a Torino,
ha coinvolto un certo numero di intellettuali nostrani di ambo i sessi
sull’importante tema del chador (o, come pare si debba meglio dire con
l’originario termine arabo dell’hijab), quel velo senza il quale le donne
musulmane di onesti costumi non possono apparire in pubblico e dietro cui,
per estensione, vorrebbero celare i loro lineamenti anche nella fotografia
che compare sui loro documenti d’identità. E tutto perché Rossana
Rossanda, in un momento di comprensibile esasperazione, ha buttato al vento
le tradizionali cautele della correttezza politica per scrivere che, a
suo avviso, quell’indumento esprime una volontà di discriminazione sessista,
oltre che una bassa concezione del ruolo della donna nella società, per
cui a una devota dell’islamismo desiderosa di indossarlo, in effigie o
di persona, il consiglio migliore da dare sarebbe quello di pensare con
la propria testa e non lasciarsi fregare. Un ragionamento che a me
sembra ineccepibile che, pure, non sembra aver raccolto troppi consensi.
In effetti, poveretta, gliene hanno dette di tutte. Sul fronte
femminile c’è stata chi, come Carmen Llera, ha invocato il rispetto della
“volontà di scelta”; chi ha detto, con l’aria di aver scoperto chissà
che, che il problema è un altro e chi, come quella nota vestale del laicismo
libertario che è l’Emma Bonino, ha osservato che non è il caso di fare
tanto chiasso per un foulard e che in fondo anche sua madre se ne mette
uno quando va in chiesa. Su quello maschile, si raccomanda l’intervento
di Giuliano Zincone (è sul “Corriere della sera” del 2 novembre) per
cui l’invito della Rossanda, pur giustificabile da un punto di vista laico,
pecca sul piano della tolleranza (perché “spetta ai fedeli, e soltanto
a loro, decidere di ribellarsi alle antiche regole”) e cela una certa
qual propensione a negare l’identità altrui, una sottile “pretesa egemonica”
tipica, peraltro, della sinistra nel suo complesso. Come a dire che
l’invito a pensare con la propria testa rappresenta una grave sopraffazione
su chi, per un motivo o per l’altro, preferisce fa pensare la testa di
qualcun altro.
Non pretenderò certo di entrare in un dibattito tanto
elevato. Oltretutto, ho la vaga impressione che non sia possibile
trovarvi una soluzione. Dando per scontato (e a me sembra scontato)
che il chador, l’hijab, il niqabm l’abejas e tutti i vari paludamenti
sotto cui è costretta a celarsi la metà del cielo nel mondo islamico esprimano
una concezione tipicamente sessista e proprietaria, tipica peraltro di
tutta la cultura mediterranea, islamica, cristiana o pagana che sia, resta
vero che possono essere vissuti dalle interessate in tutt’altro modo,
per esempio come affermazione di un’identità di cui essere orgogliose.
Lo osservava, sul manifesto di ieri, anche Adriana Buffardi. Anche
i simboli, come le parole, si possono sempre ricategorizzare e riciclare.
E in ogni caso ci saranno sempre degli esseri umani, uomini e donne,
pronti, per motivi loro, ad accettare dei comportamenti che agli altri
sembrano (e forse sono davvero) nocivi per chi li accetta. In questo
caso, che fai? È l’eterno problema di tutti i proibizionismi: gli
vieti di fare quello che vogliono, per il loro stesso bene, o dai fiducia
alla loro libertà e alla ragionevolezza che ognuno – si spera – dovrebbe
saper esprimere una volta libero di farlo? Personalmente, lo sapete,
io credo che valga sempre la pena di scommettere sulla libertà, ma so che
la tendenza opposta, quella di vietare tutto quanto non si intende rendere
strettamente obbligatorio, è storicamente vincente. E non si può
neanche dire che ciascuno faccia quello che vuole e se è un danno sono
cavoli suoi, perché i danni che i singoli si autoinfliggono hanno sempre
un costo sociale per tutti.
Resta il fatto che nessun rispetto dell’identità
altrui può impedire a chiunque di dare a chiunque altro, nei debiti modi,
un sincero consiglio. E che tutto questo discorso non ha niente –
ripeto, niente – a che fare con il problema del diritto delle donne islamiche
a farsi fotografare velate sui documenti di identità.
Mi spiego. Se è vero, com’è vero, che chiunque voglia portare sempre
il velo, fuorché nel seno della famiglia, deve essere libero di farlo,
è ovvio che deve poterlo fare anche in effigie e non vedo proprio come
glielo si possa impedire. Ma non vedo neanche come questo ovvio diritto
possa essere limitato alle donne di fede islamica. I diritti, non
si scappa, sono diritti e secondo quella teoria liberale che tanti, di
questi giorni, non si stancano di citare sono individuali e universali.
Sarebbe ben strano, roba da far rigirare nella tomba le ossa di Montesquieu,
se in una società liberale e democratica qualcuno avesse il diritto di
fare qualcosa (mettersi il velo, o toglierselo, se preferisce) perché fa
parte di un gruppo speciale, per sesso, religione, nazionalità o che altro.
Da che mondo è mondo, se un gruppo particolare rivendica un diritto
e la comunità ritiene di doverglielo garantire, esso diritto va esteso
a tutto il corpo sociale. L’idea di libertà religiosa, nacque, nel
secolo XVIII, per difendere le minoranze, ma non fu limitata alle minoranze.
Ci sarebbe mancato altro. E vorrei proprio vedere chi avrebbe il
coraggio, una volta riconosciuto il diritto alle varie Fatima e Laila di
esibire sul passaporto una foto velata, di negare a me e all’Accame, se
lo desiderassimo, di fare altrettanto. Che, siamo matti?
È anche vero, purtroppo, che coloro che hanno manifestato domenica scorsa
a Torino non avevano, in grande maggioranza, la minima intenzione di rivendicare
il diritto delle donne musulmane a mettersi liberamente il velo. Erano,
in gran parte, uomini musulmani e il diritto che rivendicavano era quello
di poterglielo imporre, il che, ammetterete, fa una certa differenza.
Esattamente come quegli altri duecentomila integralisti che, in quasi contemporanea,
manifestavano a Roma davanti al papa, non chiedevano che i giovani avessero
la libertà di frequentare la scuola che preferissero, ma il potere di mandarli,
a spese dello Stato, in quella che loro avevano deciso. La libertà
cui certa gente ambisce è quasi sempre quella di costringere gli altri
a fare quello che vogliono loro. In tema di libertà i laici e la
sinistra hanno le loro brave contraddizioni, figurarsi, ma i clericali
e la destra si dimenticano sempre di spiegare che nella libertà che invocano
non è mai compresa quella altrui.
07.11.’99