L'eredità comune

La caccia | Trasmessa il: 11/02/2003



Mi auguro che siate ancora disposti, dopo un’intera settimana in cui non si è parlato d’altro, a concedermi d’intrattenervi qualche ulteriore minuto sul tema dei crocifissi nelle scuole pubbliche e altrove.  Mi rendo conto che ne abbiamo sentito di ogni, e che non possiamo che desiderare tutti un poco di tregua, ma, forse, sulla questione c’è ancora qualcosa da dire.  In fondo, ammetterete anche voi che soltanto in questo paese poteva capitare che una decisione così ovvia e ragionevole come quella di far togliere da un luogo pubblico un simbolo religioso che, per una ragione o per l’altra, poteva risultare sgradito ad alcuni frequentatori istituzionali, desse la stura alle truculenti castronerie di cui siamo stati inondati.  Ma tant’è: in Italia non c’è limite allo zelo dei servi sciocchi, disposti a ogni acrobazia concettuale pur di rendersi grati al potere, né è pensabile che chi disponga di un’audience qualsiasi decida, in una occasione in cui potrebbe benissimo farlo, di tacere.  Per cui ci siamo dovuti sorbire le penose contorsioni verbali, per fare due nomi a caso, di un Giulio Anselmi e di una Livia Turco, che ci hanno spiegato, rispettivamente su “Repubblica” e sulla “Unità”, che l’invito a togliere il crocifisso altro non era che un incitamento all’intolleranza islamica (come se quella cristiana fosse, per qualche motivo, meno nociva) e abbiamo recepito, sgomenti ma non impreparati, le esternazioni del presidente Ciampi, che, gettando al vento la classica occasione di starsene zitto, ha voluto spiegarci come il crocefisso andasse considerato eredità comune di tutto il popolo italiano.  E lasciamo pure perdere gli ideologi di professione, come il noto Massimo Cacciari, che, in un’intervista non saprei dirvi a chi (l’ho soltanto intrasentita nella nostra rassegna stampa lunedì o martedì), ha dichiarato – se non ho capito male – che il crocifisso esprime tanti di quei valori positivi che sarebbe stolto non esporlo dovunque, salvo precisare che no, a casa sua lui proprio non lo esibisce, a conferma del fatto che l’antica tendenza dei filosofi a prescrivere al prossimo comportamenti e credenze da cui, personalmente, si considerano esenti alligna oggi con la stessa virulenza dei tempi di Platone.  Mai come in questa occasione i pochi interventi sensati – citerei, con qualche riserva, quelli di Umberto Eco e di don Mazzi e, soprattutto, Alessandro Portelli sul “manifesto” di giovedì – hanno dato l’impressione di essere le voci di chi predica nel deserto.
        Avrete notato tutti – suppongo – che la mossa vincente nella polemica è stata quella, inaugurata, salvo errori, dal cardinale Ruini, e fatta rapidamente propria dai vari zelatori laici, da Ciampi in giù, di “svalutare”, in via preliminare, il valore del crocifisso, retrocedendolo, da venerabile simbolo religioso, a manifestazione di un’identità puramente culturale, “espressione,” come ha detto l’eminente porporato, “dell’anima profonda del paese e simbolo dell’identità nazionale”.  È inutile far notare, in questa sede, la spessa patina di ipocrisia clericale che avvolge l’operazione, nel senso che quella di identificare l’anima profonda del paese con il suo retaggio religioso è una mossa meno pacifica, naturalmente, di quanto costoro non vogliano far credere.  L’occidente, e con esso l’Italia, ha importato e sviluppato il cristianesimo, segnandone la propria cultura, ma ha anche dovuto inventare, per non naufragare nella tempesta delle guerre di religione, la libertà di pensiero e lo stato laico, ed è a questa eredità, sul piano istituzionale, che è legato oggi.  La legislazione francese sul chador è senza dubbio un po’ formalistica, e offre il destro a chi lo desideri di fare un po’ di casino ideologico a buon mercato, ma rappresenta probabilmente l’unico modello normativo cui sia possibile ricorrere oggi per evitare i rischi di un conflitto che lascerebbe dietro di sé soltanto rovine.
        È vero, d’altronde, che i simboli, tutti i simboli, anche i più nobili e venerati, sono caratterizzati da una specie di plurivalenza, che non sono mai riducibili all’uso esclusivo di chicchessia.  Anche nel crocifisso chiunque può vedere quello che vuole vederci: l’emblema di una religione che vive, da un millennio e mezzo abbondante, in stretta simbiosi con il potere, e non si è mai distinta per una particolare tolleranza verso le credenze altrui, o la raffigurazione (terrificante, in quel senso) di una vittima che agonizza inchiodata a uno dei più terribili attrezzi di morte che la perversione umana sia mai riuscita a escogitare.  E può rappresentare, come no, anche l’eredità storica  di una nazione, in un senso puramente laico: basta decidere di volerlo intendere in quel modo.  Ma questo, con buona pace del cardinale Ruini e del presidente Ciampi, non cambia affatto le carte in tavola.  Intanto perché tutto si tiene e nessuno può prescindere, nell’apprestare i propri apparati simbolici, di quello che le loro icone rappresentano per gli altri, almeno se con quegli altri vuole in qualche modo comunicare.  E poi perché l’identità nazionale, vivaddio, non è un qualcosa di
dato una volta per tutte, qualcosa cui abbiamo semplicemente l’obbligo di adeguarci, pena l’espulsione dal corpo vivo del paese (e dai suoi confini).  Come tutti i valori in una società democratica è anch’essa un quid che siamo chiamati a costruire insieme, mettendoci quel poco o tanto di buona volontà che ci è stata concessa.
Insomma, ai nostri confratelli di altra origine etnica e di diversa cultura (se pure vogliamo ostinarci a dare importanza alle minime sfumature che distinguono le culture umane in questi tempi di globalizzazione) non possiamo proporre soltanto di adeguarsi o di andarsene: l’alternativa, per chi sia appena un po’ attento ai valori della democrazia e della convivenza, è altrettanto improponibile sul piano civile di quanto non lo sia su quello religioso.   Anche sul crocefisso, come sul chador, sull’infibulazione e su qualsiasi altra prescrizione cultuale che desti perplessità, nulla ci vieta, anzi, tutto ci impone di discutere a oltranza.  Il fatto di avere al governo un ministro che a una sentenza sul cui merito dissente risponde disponendo un’ispezione amministrativa è una di quelle disgrazie che ci unificano, in un certo senso, alle popolazioni islamiche vessate dalla sharia e dalle sue applicazioni temporali.   E rispondere che Adel Smith è un personaggio ambiguo, sgradevole e poco rappresentativo non vuol dire proprio una beata fava, perché non è di un qualsiasi ideologo in carriera che si sta discutendo, ma del futuro di un’Europa che non potrà che essere multiculturale, e quindi tollerante, nel senso di John Locke e di Voltaire.
 Nella prospettiva contraria, la logica che, implicitamente, ci si propone è quella per cui, anche sul piano dei simboli, tutto ciò che non è obbligatorio va considerato vietato.  Che è una logica cui, senza eccezione, potrebbero aderire tutti gli uomini di potere, cristiani, musulmani, buddisti, liberi pensatori o presunti tali.   Ma per mettere d’accordo tra loro i detentori del potere, in fondo, non servono discorsi tanto complicati.  In un modo o nell’altro, sappiamo già che lo sono sempre.  Di solito sulla nostra pelle.

02.11.’03