Mi auguro che siate ancora disposti,
dopo un’intera settimana in cui non si è parlato d’altro, a concedermi
d’intrattenervi qualche ulteriore minuto sul tema dei crocifissi nelle
scuole pubbliche e altrove. Mi rendo conto che ne abbiamo sentito
di ogni, e che non possiamo che desiderare tutti un poco di tregua, ma,
forse, sulla questione c’è ancora qualcosa da dire. In fondo, ammetterete
anche voi che soltanto in questo paese poteva capitare che una decisione
così ovvia e ragionevole come quella di far togliere da un luogo pubblico
un simbolo religioso che, per una ragione o per l’altra, poteva risultare
sgradito ad alcuni frequentatori istituzionali, desse la stura alle truculenti
castronerie di cui siamo stati inondati. Ma tant’è: in Italia non
c’è limite allo zelo dei servi sciocchi, disposti a ogni acrobazia concettuale
pur di rendersi grati al potere, né è pensabile che chi disponga di un’audience
qualsiasi decida, in una occasione in cui potrebbe benissimo farlo, di
tacere. Per cui ci siamo dovuti sorbire le penose contorsioni verbali,
per fare due nomi a caso, di un Giulio Anselmi e di una Livia Turco, che
ci hanno spiegato, rispettivamente su “Repubblica” e sulla “Unità”,
che l’invito a togliere il crocifisso altro non era che un incitamento
all’intolleranza islamica (come se quella cristiana fosse, per qualche
motivo, meno nociva) e abbiamo recepito, sgomenti ma non impreparati, le
esternazioni del presidente Ciampi, che, gettando al vento la classica
occasione di starsene zitto, ha voluto spiegarci come il crocefisso andasse
considerato eredità comune di tutto il popolo italiano. E lasciamo
pure perdere gli ideologi di professione, come il noto Massimo Cacciari,
che, in un’intervista non saprei dirvi a chi (l’ho soltanto intrasentita
nella nostra rassegna stampa lunedì o martedì), ha dichiarato – se non
ho capito male – che il crocifisso esprime tanti di quei valori positivi
che sarebbe stolto non esporlo dovunque, salvo precisare che no, a casa
sua lui proprio non lo esibisce, a conferma del fatto che l’antica tendenza
dei filosofi a prescrivere al prossimo comportamenti e credenze da cui,
personalmente, si considerano esenti alligna oggi con la stessa virulenza
dei tempi di Platone. Mai come in questa occasione i pochi interventi
sensati – citerei, con qualche riserva, quelli di Umberto Eco e di don
Mazzi e, soprattutto, Alessandro Portelli sul “manifesto” di giovedì
– hanno dato l’impressione di essere le voci di chi predica nel deserto.
Avrete
notato tutti – suppongo – che la mossa vincente nella polemica è stata
quella, inaugurata, salvo errori, dal cardinale Ruini, e fatta rapidamente
propria dai vari zelatori laici, da Ciampi in giù, di “svalutare”, in
via preliminare, il valore del crocifisso, retrocedendolo, da venerabile
simbolo religioso, a manifestazione di un’identità puramente culturale,
“espressione,” come ha detto l’eminente porporato, “dell’anima profonda
del paese e simbolo dell’identità nazionale”. È inutile far notare,
in questa sede, la spessa patina di ipocrisia clericale che avvolge l’operazione,
nel senso che quella di identificare l’anima profonda del paese con il
suo retaggio religioso è una mossa meno pacifica, naturalmente, di quanto
costoro non vogliano far credere. L’occidente, e con esso l’Italia,
ha importato e sviluppato il cristianesimo, segnandone la propria cultura,
ma ha anche dovuto inventare, per non naufragare nella tempesta delle guerre
di religione, la libertà di pensiero e lo stato laico, ed è a questa eredità,
sul piano istituzionale, che è legato oggi. La legislazione francese
sul chador è senza dubbio un po’ formalistica, e offre il destro a chi
lo desideri di fare un po’ di casino ideologico a buon mercato, ma rappresenta
probabilmente l’unico modello normativo cui sia possibile ricorrere oggi
per evitare i rischi di un conflitto che lascerebbe dietro di sé soltanto
rovine.
È
vero, d’altronde, che i simboli, tutti i simboli, anche i più nobili e
venerati, sono caratterizzati da una specie di plurivalenza, che non sono
mai riducibili all’uso esclusivo di chicchessia. Anche nel crocifisso
chiunque può vedere quello che vuole vederci: l’emblema di una religione
che vive, da un millennio e mezzo abbondante, in stretta simbiosi con il
potere, e non si è mai distinta per una particolare tolleranza verso le
credenze altrui, o la raffigurazione (terrificante, in quel senso) di una
vittima che agonizza inchiodata a uno dei più terribili attrezzi di morte
che la perversione umana sia mai riuscita a escogitare. E può rappresentare,
come no, anche l’eredità storica di una nazione, in un senso puramente
laico: basta decidere di volerlo intendere in quel modo. Ma questo,
con buona pace del cardinale Ruini e del presidente Ciampi, non cambia
affatto le carte in tavola. Intanto perché tutto si tiene e nessuno
può prescindere, nell’apprestare i propri apparati simbolici, di quello
che le loro icone rappresentano per gli altri, almeno se con quegli altri
vuole in qualche modo comunicare. E poi perché l’identità nazionale,
vivaddio, non è un qualcosa di
dato una volta per tutte, qualcosa cui
abbiamo semplicemente l’obbligo di adeguarci, pena l’espulsione dal corpo
vivo del paese (e dai suoi confini). Come tutti i valori in una società
democratica è anch’essa un quid che siamo chiamati a costruire insieme,
mettendoci quel poco o tanto di buona volontà che ci è stata concessa.
Insomma, ai nostri confratelli di altra
origine etnica e di diversa cultura (se pure vogliamo ostinarci a dare
importanza alle minime sfumature che distinguono le culture umane in questi
tempi di globalizzazione) non possiamo proporre soltanto di adeguarsi o
di andarsene: l’alternativa, per chi sia appena un po’ attento ai valori
della democrazia e della convivenza, è altrettanto improponibile sul piano
civile di quanto non lo sia su quello religioso. Anche sul crocefisso,
come sul chador, sull’infibulazione e su qualsiasi altra prescrizione
cultuale che desti perplessità, nulla ci vieta, anzi, tutto ci impone di
discutere a oltranza. Il fatto di avere al governo un ministro che
a una sentenza sul cui merito dissente risponde disponendo un’ispezione
amministrativa è una di quelle disgrazie che ci unificano, in un certo
senso, alle popolazioni islamiche vessate dalla sharia e dalle sue applicazioni
temporali. E rispondere che Adel Smith è un personaggio ambiguo,
sgradevole e poco rappresentativo non vuol dire proprio una beata fava,
perché non è di un qualsiasi ideologo in carriera che si sta discutendo,
ma del futuro di un’Europa che non potrà che essere multiculturale, e
quindi tollerante, nel senso di John Locke e di Voltaire.
Nella prospettiva contraria, la
logica che, implicitamente, ci si propone è quella per cui, anche sul piano
dei simboli, tutto ciò che non è obbligatorio va considerato vietato. Che
è una logica cui, senza eccezione, potrebbero aderire tutti gli uomini
di potere, cristiani, musulmani, buddisti, liberi pensatori o presunti
tali. Ma per mettere d’accordo tra loro i detentori del potere,
in fondo, non servono discorsi tanto complicati. In un modo o nell’altro,
sappiamo già che lo sono sempre. Di solito sulla nostra pelle.
02.11.’03