Leader paralleli

La caccia | Trasmessa il: 06/21/2009


    A pochi verrebbe in mente, così a prima vista, di paragonare tra loro il presidente iraniano Ahmadi Nejad e il nostro Silvio Berlusconi. È ovvio, d'altronde: al di là delle evidenti difformità tra le culture e le società che li esprimono, sono proprio i modelli umani cui si ispira ciascuno dei due ad apparire radicalmente diversi. L'uno – Ahmadi Nejad – è truce, austero, serio e minaccioso. L'altro – Berlusconi – truce non è, austero ben poco e serio neanche e le sue minacce preferisce esprimerle sotto forma di barzellette. L'uno è un fanatico – o, se il termine non vi sembra corretto, un fondamentalista religioso – l'altro riesce a conciliare un asserito ossequio alla chiesa cattolica con uno stile di vita non esattamente cristiano e il ricordo, neanche troppo remoto, di una tessera massonica. L'uno si presenta sulla scena del mondo come una sorta di nemesi, l'altro preferisce atteggiarsi a macchietta. Eppure, l'uno e l'altro, nei giorni scorsi, si sono trovati in una situazione assai simile, alla quale hanno reagito con gli identici argomenti. Eletti entrambi alla carica che ricoprono con una straordinaria maggioranza di voti popolari, entrambi hanno scoperto di godere, in realtà, di meno potere di quanto considererebbero adeguato a tanta investitura ed entrambi, come ovvio corollario, hanno avuto l'impressione che qualcuno cercasse di sfilargli da sotto le terga il cadreghino acquisito, per cui si sono affrettati a denunciare l'operazione come un “tentativo di golpe”. Il paragone può sembrare forzato, perché c'è ben poco in comune tra le grandi manifestazioni di piazza a Teheran e nelle altre città persiane, con tutto l'appoggio e la simpatia che hanno raccolto a livello internazionale e gli esiti tragici di questo fine settimana, e il farsesco, supposto complotto di editori, fotografi, magistrati e accompagnatrici da duemila euro a notte che tanto ha preoccupato il Berlusca, ma è indubbio che tutti e due i personaggi hanno reagito alla minaccia, vera o presunta, con la stessa ostentata sicurezza: chi ce l'ha con me, hanno detto, come per un riflesso condizionato, è un nemico dello stato, anzi, della democrazia. Stop. E nulla o nessuno sembra esser valso a distoglierli da questo punto di vista. Su delle analogie molto meno evidenti, a suo tempo, Plutarco ha costruito alcune delle sue coppie di Vite parallele più brillanti: quella di Pericle e Quinto Fabio Massimo, per esempio, o la straordinario dittico che unisce Marco Antonio a Demetrio Poliorcete.
    Naturalmente, questa tendenza a identificare la democrazia con le prerogative della propria persona, non dipende soltanto dalle peculiarità personali dei due soggetti, da quella sorta di autoreferenzialità egoriferita che, in un modo o nell'altro, li caratterizza. È, quella, una nota caratteriale abbastanza diffusa tra i politici, e non lascia immuni – mi sembra – neanche gli avversari dichiarati dei due. Il fatto è che dalla cultura di entrambi è clamorosamente assente la stessa consapevolezza: quella per cui, almeno dal XVIII secolo in poi, il consenso popolare, in democrazia, non basta. Ne è soltanto una componente, necessaria ma tutt'altro che sufficiente, e per essere considerato davvero democratico un sistema politico deve rispondere a parecchi altri parametri. Di fatto, sappiamo tutti che se non si coniuga con il rispetto degli antagonismi sociali e della funzione delle minoranze, con un sistema di bilanciamenti istituzionali, con il riconoscimento dell'autonomia dei poteri terzi e con altre banalità di tal tipo, qualsiasi appoggio di massa, per imponente che sia, non può che sfociare in una forma o nell'altra di autoritarismo oppressivo.
    Ora, nel fatto che queste cose non le sappia Ahmadi Nejad, nella cui formazione culturale non devono aver avuto una gran parte né Montesquieau né Voltaire, non c'è niente di strano. L'Iran ha una tradizione gloriosa, non si discute, ma i suoi modelli politici, da Ciro il Grande a Reza Pahlevi, sono sempre stati ispirati all'ideale dell'assolutismo non sempre illuminato e il liberalismo di tipo europeo vi è stato importato, con un'operazione alquanto artificiosa, meno di un secolo fa (ed è comunque in contrasto con i presupposti teocratici cui l'attuale regime si ispira). Ma Berlusconi... Berlusconi con tutte le arie di liberale che si dà, certe cose dovrebbe proprio saperle. Anzi, probabilmente le sa, sia pure per sentito dire. Non può, tuttavia, conformarvi il proprio comportamento, nemmeno volendo, perché in quel caso dovrebbe ammettere la propria inadeguatezza al ruolo cui è stato chiamato, riconoscendo quello che non può riconoscere, cioè che il conflitto d'interessi, inteso in senso lato, lo rende inadatto (unfit, come scriveva a suo tempo l' “Economist”) a governare il paese. Che non è soltanto una contraddizione imbarazzante per lui, ma rappresenta un impasse per l'intero paese, perché avere un leader che non può essere un leader (e non è in grado, di conseguenza, di comportarsi da leader, come oggi dimostrano ad abundantiam le sue disavventure private) è condizione che rende impossibile qualsiasi democrazia. Anche a Roma, come a Teheran, si sta celebrando – in forme diverse – la crisi del regime.

    21.06.'09