Le tre componenti

La caccia | Trasmessa il: 05/16/2010


    Non mi è sembrato certo eccessivo, sinceramente, lo spazio dedicato da chi di dovere alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della battaglia di Calatafimi, che cadeva, se non vado errato, l'altroieri venerdì. Lo stesso Presidente della Repubblica, che per ricordare l'impresa dei Mille ha speso molte energie e ha ricordato l'imbarco della spedizione, a Quarto, e il suo arrivo, a Marsala, con due importanti discorsi, a Calatafimi si è limitato a deporre una corona d'alloro alla stele commemorativa e a scoprire una targa, dopo di che, a quanto riferiscono le agenzie, “come ultima tappa della giornata siciliana ... si è recato in visita privata al sito archeologico di Segesta”. Un po' poco, forse, per quello che va considerato uno degli eventi più importanti e significativi dell'epopea garibaldina.
    Inutile rispondere che quella di Calatafimi, in realtà, non fu una grande battaglia, né dal punto di vista militare – si trattò, più che altro, di una zuffa, anche se abbastanza sanguinosa – né da quello strategico, visto che impegnò soltanto una minima parte delle forze borboniche, lasciandone quanto bastava per procurare a Garibaldi, nei giorni successivi, ben altre gatte da pelare, segnatamente alle porte di Palermo e attorno alla fortezza di Messina. Ebbe comunque, come si dice, una forte valenza morale. Fu l'imprevisto successo delle camice rosse, in definitiva, a persuadere quei notabili e quei padrini, che, allora come adesso, nell'isola dettavano legge, del fatto che l'impresa qualche chance, tutto sommato, le aveva. Per cui qualcuno passò parola e i valorosi picciotti che, durante lo scontro, si erano tenuti prudentemente alla larga, affollando, tutt'al più, i colli vicini per vedere come sarebbe andata a finire, cominciarono ad affluire tra le file dei volontari. Veniva scongiurato, così, il rischio di fare la fine dei seguaci di Carlo Pisacane o di quelli dei fratelli Bandiera.
    Niente di particolarmente commendevole, direte voi. Ma anche queste cose, in realtà, fanno parte della Storia. Garibaldi, all'imbarco a Quarto, diede prova di ardimento e risolutezza, non disgiunti da un pizzico di generosa follia, perché bisognava essere ben matti per pensare di cacciare i Borboni dal Regno delle Due Sicilie con 1.070 scalzacani mal armati, comprendendo nel numero i marinai dei due vapori e chissà quante spie e provocatori infiltrati vuoi dal governo napoletano vuoi da quello piemontese. Allo sbarco, a Marsala, dimostrò di godere di una dose di fortuna superiore alla media, perché fu puro caso se i suoi due vascelli evitarono la crociera della flotta borbonica (si erano attardati per cercarsi l'un l'altro dopo essersi persi di vista) e senza l'inopinata presenza di due fregate inglesi nel porto, a fare da schermo all'artiglieria nemica, non sarebbe sbarcato affatto. A Calatafimi, infine, si rivelò perfettamente in grado di approfittare dell'opportunismo altrui, che non è, tra le dote del politico, rivoluzionari compresi, una delle meno importanti. Follia, fortuna e opportunismo, d'altronde, possono essere considerati, per così dire, la cifra della intera spedizione dei Mille, o, forse, dell'intero Risorgimento. Anzi, con un poco di buona volontà, le si possono considerare le componenti base di tutta la storia italiana successiva. Anche oggi, se pur sembra che la fortuna abbia provvisoriamente abbandonato il paese, degli altri due elementi non si sente affatto mancanza.
    Sarà per questo, probabilmente, che la classe dirigente attuale, che, pure, di fronte a un fenomeno tanto più recente come il fascismo è sempre pronta ad affermare che il relativo giudizio va lasciato agli storici, non è in grado di affrontare storicamente il tema del Risorgimento, ma continua ad accapigliarsi sul suo significato in termimi rigorosamente ideologici. Il fatto stesso che il buon Napolitano, che non ha certo l'anima del polemista, abbia sentito il bisogno di deplorare i “giudizi liquidatori” sul conseguimento dell'unità, invocando una “più matura consapevolezza storica”, dimostra che questo è il dente dolente su cui batte la lingua.
    Perché non ha senso, naturalmente, chiedersi se l'unità d'Italia sia stata un bene o un male. Così a occhio e croce, è molto probabile che la soluzione unitaria sabauda non fosse, tra le tante possibili, quella ottimale, ma la storia non si fa con i se ed è inutile fantasticare su cosa sarebbe potuto succedere altrimenti. Con quella soluzione dobbiamo comunque fare i conti ed è compito della storia spiegarci come si è realizzata e quali risultati ha prodotto. Se qualcuno ritiene che quei risultati non siano stati un granché, liberissimo di pensarlo e di proporre eventuali misure correttive per il futuro, senza bisogno di falsificare il passato.
    Quello che voglio dire è che si può benissimo essere federalisti, qualsiasi cosa significhi, senza dover affermare, come ha fatto Bossi, che il primo federalista è stato il conte di Cavour. O che si può rivendicare, se lo si desidera, il ruolo dei cattolici in questo paese senza sostenere, come ha detto, più o meno, il cardinale Bagnasco al convegno per il centocinquantenario promosso dalla CEI, che sin dall'inizio la Chiesa vi “ha portato il suo contributo in ordine alla solidarietà e al senso del bene generale”. Cavour, si sa, non era federalista, né nel senso del Gioberti né in quello del Cattaneo e la Chiesa fu ostilissima all'unità nazionale non solo durante il Risorgimento, ma anche dopo, per lo meno fino al Patto Gentiloni del 1913 e all'incontro con l'Uomo della Provvidenza nel 1929. Nel clima di ignoranza diffusa nel quale siamo immersi, tuttavia, nell'assuefazione generale alla menzogna che ci contraddistingue, ciascuno si sente libero di perseguire i propri fini raccontando tutto quello che vuole. Nessuno, tanto, protesterà.
    È opportunismo anche questo e sicuramente è più pericoloso di quello dei picciotti di Calatafimi.
16.05.'10