Le maniche della Madonna

La caccia | Trasmessa il: 03/11/2007



    “Milano si rimbocca le maniche” ha dichiarato la sindaca della nostra città nel corso della conferenza stampa in cui, a fianco dell’immarcescibile Berlusconi, ha rilanciato la sua stramba proposta di una “marcia per la sicurezza”. E in questo, ha spiegato, imita “la nostra Madonnina, che non è in atteggiamento di preghiera, ma di lavoro.” L’immagine è audace, oltre che iconograficamente discutibile, visto che la statua in questione, fusa nel 1774 dal Bini su modello di Giuseppe Perego, si ispira più ai modelli invalsi con la Controriforma che a quelli del realismo socialista e raffigura la Vergine nell’atto di allargare le braccia levando gli occhi al cielo, come a chiedere al Signore la pazienza necessaria per restare lì dove l’hanno messa, ma non manca di una sua efficacia comunicativa e bisogna dar atto alla signora Moratti di averla saputa elaborare o recuperare chissà da dove. Il parallelo esprime con icasticità quei valori di operosa concretezza che i milanesi hanno sempre amato attribuire a se stessi e, visto che il contesto in cui è stato espresso era quello delle tante più tasse che i milanesi pagano a paragone di altri e del tanto meno che in cambio gliene ritorna un potere centrale ostile, riecheggia con sicuro effetto la garbata polemica contro chi suole stare con le “mani in man” cui è affidato il successo della più amata tra le canzoni milanesi, che alla Madonnina del Duomo è appunto dedicata. A Milano si lavora e si paga; altrove, notoriamente, no.
    La polemica, in realtà, è antica. Vi si riflette il vanto, già illuministico e ottocentesco, che la città ha sempre provato per il suo indiscusso primato in campo industriale e manifatturiero e per la capacità correlata di attirare sempre nuove braccia e nuovi cittadini da contrade forse più piacevoli da un punto di vista climatico e paesaggistico, ma irrimediabilmente arretrate sul piano produttivo. Alla Roma burocratica, pretesca e sonnolenta, alla Napoli dei lazzaroni e dei mandolini, Milano ha contrapposto a lungo la propria asserita capacità di creare (e distribuire) ricchezza e benessere. Un ideale forse prosaico, sicuramente autoreferenziale, venato – magari – di qualche sfumatura razzista, ma non privo di una sua grandezza e persino di una sua, riluttante, generosità. Un ideale, comunque, capace di radicarsi a fondo nella coscienza civile dei milanesi vecchi e nuovi e di resistere perfino nei nostri tempi grami, quando di infrastrutture industriali non se ne vedono più, le attività manifatturiere sono in crisi da un pezzo e in città domina un terziario dalle caratteristiche spiccatamente parassitarie, tanto è vero che, nonostante il contributo dei migranti extracomunitari, il saldo demografico è da tempo in passivo e i cittadini residenti, rispetto agli anni ’70 del secolo scorso, sono un buon mezzo milione di meno.
    Perché, a essere proprio sinceri, l’immagine della Milano che si rimbocca le maniche rischia di appartenere più al passato che alla contemporaneità e, soprattutto, di non riguardare più la sua classe dirigente. Sotto la Madonnina, se mi permettete la distinzione, ci sono sempre meno imprenditori e sempre più ricchi e si sa che i ricchi (questi ricchi, almeno) con l’etica del lavoro c’entrano solo fino a un certo punto. Tra chi lavora e chi spende (e comanda) si allarga sempre di più l’abisso e il lavoro che la nuova classe dirigente ambrosiana apprezza soprattutto è quello degli altri, da cui sa che dipende il proprio benessere, ma che non intende affatto retribuire attraverso una vera integrazione sociale. La signora Moratti è donna sicuramente di grande energia, ma non vi sarà sfuggito che la esplica in atteggiamenti di tipo, per così dire, più imperativo che fattivo. La stessa perentorietà con cui chiede al governo di adempire ai suoi obblighi verso la città – un impegno di cui non sembrava particolarmente consapevole quando al governo c’era lei e i problemi di Milano erano, tutto sommato, gli stessi – ricorda piuttosto da vicino quella della padrona di casa che ammonisce il personale infingardo a darsi una buona volta da fare pena il licenziamento in massa.
    E la bela Madunina? Be’, resta un simbolo della nostra città, non ci piove, ma in un certo senso ne simboleggia anche il carattere illusorio. Non è tuta d’oro, consistendo, in ultima analisi, di una lamina di rame dorato montata su una struttura di acciaio, e con i suoi 4 metri e 16 centimetri di altezza non è neanche tanto piscinina. Non si rimbocca le maniche, non regge l’asta della bandiera, come mi sembrava quando, da ragazzino, la vedevo dal balcone della casa dei miei a Porta Romana e dalla città in cui le tocca stare, in effetti, distoglie lo sguardo. Da lontano fa la sua figura, ma la si ammira meglio tenendosi, appunto, a una certa distanza.

18.03.’07