La sobrietà necessaria

La caccia | Trasmessa il: 02/05/2012


    La sobrietà necessaria

    Si sa che uno dei problemi principali del politico è quello dell'immagine, della veste sotto la quale più gli convenga presentarsi all'opinione pubblica. Non ne sono esenti i ministri, nemmeno quelli che fanno parte di un governo tecnico, o presunto tale: devono far valere, di fronte ai cittadini, soprattutto la loro qualifica di esperti, moderna incarnazione – quasi – del reggitore filosofo di Platone, che dalle sue competenze, e non da altro, è abilitato al governo, o non sarebbe meglio azzardarsi talvolta in qualche ostentazione di umanità, in qualche occasionale captatio benivolentiae, alla ricerca di quel consenso che non sempre l'acclamata valentia nel proprio campo assicura? È un dilemma più stringente di quanto non sembri, perché la qualifica in quanto esperto ai cittadini di solito piace, ma al resto del ceto politico no, il che la rende piuttosto faticosa da sostenere, e tutti coloro che ne sono investiti si rendono conto, più o meno vagamente, di dover fare qualche sforzo, ogni tanto, per alleggerirne il peso. Cosa più facile a dirsi che a farsi, perché anche quella della comunicazione della immagine è una tecnica e non è detto che il valente economista o il giurista di vaglia la sappiano padroneggiare. Nonostante il sostegno e l'assistenza di appositi professionisti del campo, qualche gaffe può sempre sfuggire, con risultati variabili dal molesto al disastroso.
    In particolare, il ministro tecnico dovrebbe sempre guardarsi come dalla peste dalle battute. Questa settimana il professor Monti ha dissipato una parte non piccola della popolarità di cui, contro ogni ragionevole aspettativa, continua a godere, con quella osservazione su quanto dovrebbe essere monotona, per un giovane, la prospettiva di un posto fisso. E qualche giorno prima, uno dei suoi vice, il giovane Michel Martone, ha suscitato una discreta levata di scudi dichiarando che, a suo avviso, “se non sei ancora laureato a ventotto anni sei uno sfigato”. Battute entrambe, naturalmente, frasette paradossali buttate lì per allentare la tensione di un discorso impopolare facendo sorridere gli interlocutori, l'equivalente verbale di un ammiccamento o di un colpetto di gomito, ma capaci comunque di far danno. Perché è vero, tutto sommato, che la prospettiva di un'intera esistenza alla stessa scrivania o nella stessa officina può essere da spararsi e che in una decina di anni dalla maturità si dovrebbe poter completare con agio qualsiasi corso universitario, ma l'Italia è piena di precari a vita che i benefit del posto fisso se li sognano di notte e di iscritti all'Università che più di un esame ogni due anni non riescono a dare, se pure, e una delle regole base dell'umorismo è quella per cui è inutile cercare di far sorridere qualcuno sulle proprie disgrazie.
    Naturalmente Monti sa benissimo che il problema non riguarda la garanzia del posto, ma quella dell'impiego, nel senso che a quella tal monotonia si dovrebbe poter ovviare cambiando un'attività con un'altra, come è capitato spesso a lui nella vita, e non alternando rari momenti di precariato mal retribuito con lunghi intervalli di disoccupazione, e persino Martone, per quanto scervellato possa sembrare, non deve ignorare che possono esistere dei buoni motivi per ritardare la laurea (o non laurearsi affatto) e infatti tutti e due hanno fatto, in qualche modo marcia indietro, rammaricandosi il primo di essersi permesso un'osservazione “fuori contesto” e ammettendo il secondo di non aver mantenuto “la necessaria sobrietà”. Ne hanno fatto, in sostanza, un problema di stile, dicendo scusateci, il problema i cui si tratta è importante e ci è ben noto, ma nel definirlo abbiamo usato dei termini impropri. Non lo faremo più.
    Potremmo, per una volta, persino far finta di crederci. In fondo né l'una battuta né l'altra sono particolarmente gravi. Nell'osservazione di Monti c'è solo un eccesso di paternalismo, dell'atteggiamento di chi, dall'alto, guarda con un po' troppo distacco i guai di chi sta in basso, e il termine “sfigato”, anche se conserva ancora qualche traccia dell'originario significato di irrisione sessuale, è ormai abbastanza largamente impiegato in senso non offensivo. Ma è difficile sfuggire al sospetto che la sobrietà cui entrambi avrebbero fatto meglio ad attenersi non sia di natura stilistica o lessicale. Entrambi, cedendo alla tentazione dalla battuta, hanno in un certo senso allentato i necessari controlli, rivelando, appunto, l'immagine che hanno di sé e degli altri. Hanno implicitamente parlato di sé, della propria prestigiosa carriera di studioso e di grand commis, della propria brillante e precocissima posizione accademica, mettendo in rilievo la distanza che li separa dal vulgus profanum che gli è stato dato da governare. Hanno messo in luce, senza volerlo, il sottile disprezzo che provano verso chi non è bravo come loro. Che non è esattamente il modo di assicurarsi il consenso di cui anche i tecnici, in politica hanno bisogno, ma non c'è dubbio che riveli, sul significato politico del governo di cui entrambi fanno parte, più di cento dichiarazioni programmatiche. Cerchiamo di non dimenticarcene.
05.02.'11