La sindrome di Titone

La caccia | Trasmessa il: 01/30/2005



Quando, secondo il mito, Eos, la dea dell’Aurora, si innamorò del bellissimo Titone, figlio di Laomedonte, e decise di sposarlo a ogni costo, ottenne da Zeus per l’amato il dono dell’immortalità, ma non pensò, forse perché le pareva ovvio, di chiedere anche quello dell’eterna giovinezza.  E così, perché gli dei, a volte, sono crudeli anche fra di loro, fu condannata a restare unità per l’eternità, lei, sempre bella e desiderabile – l’Aurora  rinasce ogni mattina, ma nulla mai perde della propria freschezza – con uno sposo destinato a invecchiare, giorno dopo giorno, fino alla decrepitezza, con quali conseguenze per il divino ménage è facile immaginare anche a chi non sia pettegolo come Ovidio.   Non basta, come dicevano gli antichi, condividere il letto di una dea per sfuggire agli insulti e ai danni della vecchiaia.
        Gli unici, a parte gli dei, cui sia concesso questo raro privilegio sono gli eroi della narrativa popolare.  James Bond, l’agente 007, è sulla trentina quando debutta nelle pagine di Casino Royale, nel 1954, non sembra particolarmente gravato dal peso dei quaranta nel 1965, quando Ian Fleming si decide a precisare, in You Live Only Twice, che aveva diciassette anni nel ’41, ed è riuscito, almeno sullo schermo, a conservare quell’invidiabile condizione biologica fino ai giorni nostri.  Hercule Poirot è già in pensione dalla polizia belga nel suo romanzo di esordio, The Mysterious Affair at Styles, ambientato durante la prima guerra mondiale e pubblicato nel 1920, ma non sembra cambiato di un ette nell’ultimo romanzo che la Christie gli dedica, Elephants Can Remember, che è uscito nel 1972 e si svolge chiaramente in quegli anni.   Manuel Vázquez Montalbán, un anno fa, si è portato con sé il suo Pepe Carvalho lasciandogli in volto le stesse identiche stimmate della mezza età che dimostrava nel 1976 in Tatuaje.   Gli autori di questo genere di narrativa si rendono perfettamente conto, di solito, del fatto che i tempi cambiano, ma non possono, per una quantità di ottime ragioni su ci intratterremo, potendo, in un’altra occasione, adeguare al cambiamento le caratteristiche dei loro personaggi.
        Gli altri mortali, ahimè,  non possono fare altro che chinare il capo di fronte al tempo che passa e cercare, se ci riescono, di fare finta di niente.  Aiuti in tal senso, va detto, non mancano.  Viviamo in tempi che sull’essere privilegiano l’apparire e grazie ai prodigi della tecnica moderna la giovinezza, per fugace che sia, si può sempre simulare.
        Queste considerazioni non mi sono venute in mente davanti allo specchio, ma, non ve ne stupiate, di fronte ai primi manifesti dell’incipiente campagna elettorale.  Come sempre, i primi candidati a tappezzare i muri con la propria immagine vengono, per motivi che non ho mai capito appieno, dalle file dei postfascisti di AN, e di quei postfascisti – di solito – cui il post sta abbastanza stretto, e tra questi, come sempre, se ne distinguono due.  Un truce postfascista dalla mascella decisa, uno che prima dell’attuale collocazione in politica ne ha passato di ogni, dalle origini nella Lega a una fuggevole permanenza a sinistra (o quasi) come sostenitore, non ricordo se dall’esterno o dall’interno, di una giunta “riformatrice”, e una posfascista vezzosa, che, ancorché possa contare, mi dicono, su rapporti familiari eminenti,  fa conto soprattutto sull’effetto immagine, tanto è vero che ha cura di mettere in evidenza un viso da diva anni ‘60, un sorriso imbronciato incorniciato da lunghi capelli castani arricciati.  Guardatevi intorno e vedrete che tutti gli spazi disponibili sui muri, o quasi, per ora se li sono aggiudicati quei due.
        I quali, oltre alla fede politica, hanno in comune una cosa.  Presentano tutti e due agli elettori un’immagine di sé, diciamo, un po’ stagionata.  Quelle loro fotografie a colori io, ne sono sicuro, le ho già viste: sono comparse nei manifesti delle ultime quattro cinque campagne e dunque risalgono, come minimo, a dieci quindici anni fa.  Non è possibile, con tutta la buona volontà, che le fattezze che raffigurino siano quelle attuali dei loro soggetti.  Io quei due non li ho mai frequentati de visu, sia chiaro, ma suppongo che qualche ruga in più, qualche capello grigio, delle labbra un po’ meno tumide per lei, un minimo di defaillance della mascella per lui vadano inevitabilmente messe nel conto.  E se è normale, se è umano volere sfuggire di fronte a se stessi e nei rapporti personali a quella che potremmo chiamare la sindrome di Titone – non è di tutti l’aristocratico eroismo della contessa di Castiglione, quella che, avanzando gli anni, si rinchiuse nel proprio appartamento, non volle più incontrare nessuno e giunse a eliminare dalle pareti tutti gli specchi – è anche vero che la campagna elettorale è un ambito in cui ci si aspetta dai candidati, se non altro, uno sforzo di sincerità.  E quale sincerità si possa presumere in chi comincia con il falsificare, in un certo senso, la propria immagine, non è facile dire.   già abbastanza peculiare l’idea di chiedere voti esibendo sui muri la propria faccia, come se fosse un argomento di un qualche interesse per qualcuno: farlo esibendo una faccia che propria non è più, una propria ex faccia, non può che aumentare le perplessità.
        Mi direte che c’è chi fa di peggio.  C’è chi non si limita a esibire un’immagine che non è più la sua, ma “falsifica” addirittura la propria persona, facendosi stirare il viso e trapiantare i capelli a uno a uno da chirurgi specializzati.   vero, ma non fa, a ben vedere, una gran differenza.  Quelle sono soltanto delle forme più raffinate (e più costose, certo) dello stesso culto dell’immagine, della stessa fiducia nell’apparenza.  Sappiamo tutti che per vendere qualsiasi prodotto la confezione è importante, se non decisiva, il che non toglie che chi compra badando soprattutto alla confezione lo fa a proprio rischio e pericolo.
        Per i falsificatori di persone, la legge della Firenze medioevale prevedeva, come forse ricorderete dal Gianni Schicchi di Puccini, il taglio della mano e l’esilio.  Si trattava, nel caso, di una falsificazione di tutt’altro tipo e quella di tagliar mani, comunque, è una pratica orribile con la quale nessuno di noi vorrebbe avere nulla a che fare.  Sull’esilio…  be’, sull’esilio, in certi casi, si potrebbe discutere.

30.01.’05