Nessuno, che io sappia, è mai riuscito
a individuare con esattezza il passaggio dell’opera di Hegel con la cui
citazione Marx apre il suo celebre saggio sul 18 brumaio di Luigi Bonaparte,
affermando che “tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della
storia universale si presentano, per così dire, due volte”. I riferimenti
che si fanno di solito alla terza parte delle Lezioni sulla filosofia della
storia non sono poi così puntuali e nessuno può escludere che quell’aforisma
il profeta del materialismo dialettico l’abbia approssimativamente ricostruito
a memoria o, addirittura, che se la sia inventato. Poco male,
naturalmente, perché a interessargli davvero era l’osservazione che segue
immediatamente, quella per cui ciò che si presenta la prima volta sotto
l’aspetto di una tragedia, appare inevitabilmente, la seconda, come una
farsa. Che non sarà, forse, una legge generale del divenire storico,
ma individua una tendenza alla quale non è difficile, con un po’ di attenzione,
trovare conferma.
Così,
non vorrete negare che la settimana testé trascorsa, qui in Italia, sia
stata caratterizzata da un certo numero di deja vu, tutti, nonostante la
serietà e persino la drammaticità dei problemi coinvolti, di tono piuttosto
farsesco. Ha cominciato il Presidente della Repubblica (che a volte
ha come la tendenza di svilire le proprie doti preclare di politico e statista
assumendo uno sgradevole tono da primo della classe) con il riaprire incautamente
la questione giuliana, gettando nel caos i rapporti diplomatici con i nostri
vicini orientali. Gli ha fatto seguito il governo, che, nell’ansia
ormai tradizionale di trasformare un contrasto politico in problema di
ordine pubblico, non ha trovato di meglio che giocare, una volta di più,
la carta delle Brigate Rosse e di evocare, per fortuna invano, le spettro
della violenza di piazza. Ed entrambi questi notevoli tentativi di
avvalorare la massima marxiana sono stati letteralmente surclassati dai
vescovi, che, dopo aver opposto in via informale il non possumus a chi
gli chiedeva comprensione verso la legge sulle coppie di fatto, hanno formalmente
minacciato, nella persona del presidente della loro conferenza nazionale,
una sorta di nuovo non expedit contro chiunque, senatori e deputati in
testa, tale legge contribuisca a mettere in atto.
Ora,
di inframmettenze clericali nelle questioni del nostro paese, naturalmente,
ce ne sono state parecchie, dopo quel primo diktat con cui, il 10 settembre
del 1873, Pio IX ebbe a dichiarare che non era opportuno (non expedit,
appunto) che i cattolici partecipassero alla vita politica dello stato
unitario. Venuto meno quel bando, per via della necessità di far
valere a pro della chiesa i voti dei moderati (che è, più o meno, il senso
del “patto Gentiloni” del 1913), le competenti autorità religiose non
hanno mai smesso di darci dentro. Basterà ricordare, tanto per attenersi
ai due episodi più noti, la crociata contro il modernismo di Pio X e la
scomunica del comunismo pronunciata da Pio XII. Ma si trattava, almeno
di problemi seri, di questioni che comportavano una reale disparità di
visioni del mondo e di prospettive per il futuro, il che poteva spiegare,
se non giustificare, il rozzo interventismo dei papi. Oggi invece
il cardinale Ruini, quasi a coronamento della sua carriera, sfida il ridicolo
minacciando “una nota ufficiale che sia impegnativa per coloro che accettano
il Magistero della Chiesa”, che è mica paglia, per silurare una proposta
di legge dalla portata minima, volta a regolare, non senza implicazioni
vessatorie e vistosi cedimenti al punto di vista del clero, una realtà
largamente diffusa e tale da riguardare, per sua natura, solo dei cittadini
che al magistero in questione si sentono già estranei. La pretesa,
insomma, è sempre quella di imporre le proprie normative anche a chi non
ha motivo di riconoscerle, ma che la registrazione all’anagrafe di una
convivenza non matrimoniale o il diritto all’eredità legittima dopo nove
anni sotto lo stesso tetto possano mettere in pericolo la dottrina morale
della chiesa, o addirittura i disegni dell’Onnipotente (“un ordinamento
divino che l’uomo non può modificare a suo arbitrio”, come dice il papa)
può supporlo soltanto chi, sulla solidità di quella dottrina e la coerenza
intrinseca di quei disegni nutre più dubbi di quanti abbia il coraggio
di confessare. Vittorio Messori, sul “Corriere” di martedì 13,
fa degli sforzi erculei per dimostrare che la questione, vertendo appunto
sul rispetto della volontà di Lassù, è ancora più importante di quella
del potere temporale, per cui il povero Prodi correrebbe oggi più rischi
di quanti non ne abbia affrontati, a suo tempo, il barone Ricasoli, che
fu il primo capo del governo unitario dopo Cavour e dovette sfidare, lui,
cattolicissimo, le ire di un Pio IX comprensibilmente incazzato per essere
stato orbato da poco del governo di Roma. L’ipotesi è suggestiva,
ma solo ammettendo che il Padre Eterno si curi anche dei dettagli del diritto
ereditario e del diritto agli assegni alimentari, un’ipotesi che, non
so a voi, ma a me suona vagamente blasfema.
La
vera farsa, naturalmente, è un’altra. È quella di un ceto
politico talmente prono alle istanze del clero, talmente bisognoso della
sua benevolenza, da non rendersi conto che sono proprio i compromessi e
i cedimenti con cui cerca di eludere le ire cardinalesche a incoraggiare
i Ratzinger e i Ruini nel loro gioco al massacro. Avessero incontrato
una dignitosa resistenza, credete a me, le loro santità non avrebbero potuto
far molto, perché non è certo loro interesse impancarsi in un braccio di
ferro con il mondo laico su una tematica a proposito della quale la storia
si è già pronunciata con sufficiente perentorietà. Di fronte al vergognoso
calamento di braghe cui gli è stato dato assistere… be’, naturalmente
il discorso si fa diverso. Dopo tutto, chi pecora si fa il lupo ne
approfitta.
18.02.’07