Non so se qualcuno tra voi ha già avuto
modo, in queste prime ore della festa della Repubblica, di ascoltare la
versione riveduta e corretta dell’Inno di Mameli. Mi sembra difficile,
perché la prima esecuzione, affidata alla Banda dell’Esercito diretta
dal Maestro Fulvio Creux, che, a quanto leggo, ha interpretato uno spartito
“scovato” dallo storico Michele d’Andrea al museo del Risorgimento di
Torino e “ripristinato” dal musicologo Maurizio Benedetti, era prevista
per stamattina alle nove all’Altare della Patria, e non se ne sono avute,
che io sappia, testimonianze radiofoniche o televisive. E visto che
i CD di cui i principali quotidiani del paese hanno voluto farci omaggio
esibiscono delle versioni affatto tradizionali del celebre brano di musica,
quella dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia acclusa
a “Repubblica” giovedì e le sette (!) della Banda dell’Arma dei Carabinieri
offerteci dal “Corriere” stamane, suppongo che per poter conoscere
e appieno apprezzare la nuova veste dell’Inno della Repubblica dovremo
aspettare, come minimo, i telegiornali di stasera.
Sarà,
temo, una mezza delusione. Secondo le anticipazioni dei giornali
l’Inno dovrebbe essere stato ripulito da “molta dell’enfasi wagneriana
e umbertina che i Savoia gli imposero nei primi decenni del secolo scorso”
e dal “carattere tronfio e reboante del successivo ventennio mussoliniano”,
per non dire della “ingessatura cadenzata dalla grancassa per l’uso militare
di parata dei successivi cinquanta anni” (così, almeno, “Repubblica,
del 26 ultimo scorso), ma la musica, in definitiva, resta quella
originale, come la compose, in una notte del settembre 1847, il maestro
Michele Novaro, secondo tenore e maestro del coro al Teatro Regio di Torino,
e le parole, ovviamente, sono sempre quelle del Canto degli Italiani del
povero Goffredo Mameli, per cui suppongo che le “novità” promesse si
riducano a quel che in campo sinfonico si direbbe una riorchestrazione
e, nel mondo della musica leggera, un nuovo arrangiamento. Un po’
poco per un Inno che, con rispetto parlando, a me ha sempre ricordato una
di quelle vecchie, scassatissime automobili che, per tornare su strada,
avrebbero bisogno, come minimo, di un motore di riserva e di una carrozzeria
nuova.
Perché,
con buona pace del Presidente Ciampi, quell’Inno, diciamocelo pure, è
un disastro. E lasciamo pure perdere la musica, che non mi sembra
un granché, ma sulla quale non ho competenza per pronunciarmi, ma le parole,
dio, quelle parole! Pensate all’Italia, la nostra povera Italia,
che, appena desta dal sonno, si calca in testa, chissà perché, l’elmo
di Publio Cornelio Scipione l’Africano, che fu un energico generale e
vinse, sì, Annibale a Zama, ma fu anche un politico che considerava il
governo dello stato un affare di famiglia e finì, guarda caso, coinvolto
in un famoso processo per corruzione. Pensate all’Italia che, sempre
con quell’elmo in testa, cerca di afferrare la Vittoria per i capelli,
perché schiava di Roma Iddio la creò, come a dire che la guerra noi italiani
non possiamo, in ogni caso, che vincerla, che non è esattamente una bella
immagine, né, d’altra parte, un dato che la storia confermi al cento per
cento. Pensate alle altre libertà che con la storia si prendono
quei versi, interpretando in senso patriottico e nazionale personaggi e
situazioni (Legnano, i Vespri Siciliani, il Ferrucci, Balilla…) che con
la patria e la nazione poco avevano a che fare, se non altro perché ai
loro tempi i relativi concetti non erano stati ancora inventati. Pensate
alle evidenti difficoltà di un autore incapace di trovare un giusto equilibrio
tra il contingente (onde le oscure allusioni alla solidarietà con la Polonia
in funzione antiaustriaca) e il preterito, come il ricordo delle vittorie
degli antichi romani, e alla sua ostinata chiusura di fronte ai molti valori
della nostra storia non unitaria, quelli artistici e culturali compresi.
Tutta roba da far venire, come dicono i letterati, il latte alle
ginocchia.
Certo,
a quei tempi gli inni li si faceva così. Non tutti avevano la fortuna
di trovare un Rouget de l’Isle capace di dar voce con efficacia e senza
retorica alle dure necessità del momento. Alla brutalità della Marsigliese
gli uomini del Risorgimento italiano preferivano, d’altronde, sottrarsi
e nella retorica neoclassica vedevano un utile antidoto a quello che altrimenti
sarebbe stato un invito un po’ troppo esplicito alla rivoluzione, che,
come insegnava appunto la Francia, si sa dove comincia, ma non dove finisce.
A quell’inquietante “allarmi cittadini, formate i vostri battaglioni”
preferivano di gran lunga un più aulico “stringiamoci a corte, siam pronti
alla morte”, che aveva, se non altro, il vantaggio di lasciare volutamente
nel vago l’indicazione di che cosa bisognasse fare nel concreto e non
precisava neanche in nome di cosa i bravi patrioti dovessero far blocco
e morire.
Perché,
a pensarci bene, l’inno che, nella contrapposizione tra monarchia e repubblica,
è stato a lungo il contraltare di quello di Mameli, la vecchia Marcia Reale
di Giuseppe Gabetti, era (ed è) altrettanto brutto sul piano dei versi
e su quello della melodia, ma, se non altro, ripetendo non so quante volte
l’augurio di “Viva il re!”, non lasciava dubbi sulle scelte politiche
e istituzionali che l’autore auspicava. L’Inno di Mameli, invece,
non so se l’avete notato, è l’unico inno repubblicano che non contiene
nemmeno una volta la parola “repubblica”. Al di là delle rievocazioni
mitologiche e pseudostoriche, la sua dimensione ideale si esaurisce nel
ritornello, in quell’invito cadenzato e ripetuto a stringersi a corte
sfidando la morte, perché se l’Italia chiama, perbacco, non si può far
altro che correre.
E
qui sta il punto. Io le persone con cui stringermi a corte, che volete
che vi dica, preferisco scegliermele di persona. Il semplice fatto
che siano italiani non mi basta. Non vorrei dovermi trovare ad affrontare
l’estremo pericolo fianco a fianco, che so, del presidente Berlusconi
e dell’onorevole La Russa, non più di quanto mi solletichi l’idea di
trovarmi in quella estrema evenienza in compagnia, non dico di Erika e
Omar, ma semplicemente di Bruno Vespa, del senatore Agnelli, di Massimo
Alberoni o del cardinale Biffi. In più, ho la forte sensazione che
se continueremo a essere, come dice il poeta, “calpesti e derisi” questo
non dipenderà tanto dalla mancanza di unità nazionale, quanto dallo scarso
spessore della nostra classe dirigente (opposizione compresa) e dalla superficialità
della cultura che esprime. Goffredo Mameli merita il nostro ricordo,
se non altro perché non esitò, a ventidue anni di età, a farsi ammazzare
in nome delle proprie idee, ma il migliore omaggio che si possa rendere
alla sua memoria è quello di lasciare pietosamente cadere nel dimenticatoio
quei bruttissimi versi. E, in definitiva, a cosa potrebbe servirci,
oggi, l’elmo di Scipio? Vittorio Emanuele II, che, in fondo, era
un Padre della Patria allo stesso titolo di Mazzini, diceva che lo si sarebbe
dovuto utilizzare per feie drinta la pasta sütta, per “farci dentro la
pasta asciutta”, ma forse non è il caso di citare il punto di vista di
un re su quello che resta, bene o male, un simbolo repubblicano. Meglio
rimandarlo al Museo. Con i sensi, s’intende, del più profondo rispetto.
02.06.’02