la Repubblica in versi

La caccia | Trasmessa il: 06/02/2002



Non so se qualcuno tra voi ha già avuto modo, in queste prime ore della festa della Repubblica, di ascoltare la versione riveduta e corretta dell’Inno di Mameli.   Mi sembra difficile, perché la prima esecuzione, affidata alla Banda dell’Esercito diretta dal Maestro Fulvio Creux, che, a quanto leggo, ha interpretato uno spartito “scovato” dallo storico Michele d’Andrea al museo del Risorgimento di Torino e “ripristinato” dal musicologo Maurizio Benedetti, era prevista per stamattina alle nove all’Altare della Patria, e non se ne sono avute, che io sappia, testimonianze radiofoniche o televisive.  E visto che i CD di cui i principali quotidiani del paese hanno voluto farci omaggio esibiscono delle versioni affatto tradizionali del celebre brano di musica, quella dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia acclusa a “Repubblica” giovedì e le sette (!) della Banda dell’Arma dei Carabinieri offerteci dal “Corriere” stamane,  suppongo che per poter conoscere e appieno apprezzare la nuova veste dell’Inno della Repubblica dovremo aspettare, come minimo, i telegiornali di stasera.
        Sarà, temo, una mezza delusione.  Secondo le anticipazioni dei giornali l’Inno dovrebbe essere stato ripulito da “molta dell’enfasi wagneriana e umbertina che i Savoia gli imposero nei primi decenni del secolo scorso” e dal “carattere tronfio e reboante del successivo ventennio mussoliniano”, per non dire della “ingessatura cadenzata dalla grancassa per l’uso militare di parata dei successivi cinquanta anni” (così, almeno, “Repubblica, del 26 ultimo scorso),  ma la musica, in definitiva, resta quella originale, come la compose, in una notte del settembre 1847, il maestro Michele Novaro, secondo tenore e maestro del coro al Teatro Regio di Torino, e le parole, ovviamente, sono sempre quelle del Canto degli Italiani del povero Goffredo Mameli, per cui suppongo che le “novità” promesse si riducano a quel che in campo sinfonico si direbbe una riorchestrazione e, nel mondo della musica leggera, un nuovo arrangiamento.  Un po’ poco per un Inno che, con rispetto parlando, a me ha sempre ricordato una di quelle vecchie, scassatissime automobili che, per tornare su strada, avrebbero bisogno, come minimo, di un motore di riserva e di una carrozzeria nuova.
        Perché, con buona pace del Presidente Ciampi, quell’Inno, diciamocelo pure, è un disastro.   E lasciamo pure perdere la musica, che non mi sembra un granché, ma sulla quale non ho competenza per pronunciarmi, ma le parole, dio, quelle parole!   Pensate all’Italia, la nostra povera Italia, che, appena desta dal sonno, si calca in testa, chissà perché, l’elmo di Publio Cornelio Scipione l’Africano, che fu un energico generale e vinse, sì, Annibale a Zama, ma fu anche un politico che considerava il governo dello stato un affare di famiglia e finì, guarda caso, coinvolto in un famoso processo per corruzione.  Pensate all’Italia che, sempre con quell’elmo in testa, cerca di afferrare la Vittoria per i capelli, perché schiava di Roma Iddio la creò, come a dire che la guerra noi italiani non possiamo, in ogni caso, che vincerla, che non è esattamente una bella immagine, né, d’altra parte, un dato che la storia confermi al cento per cento.   Pensate alle altre libertà che con la storia si prendono quei versi, interpretando in senso patriottico e nazionale personaggi e situazioni (Legnano, i Vespri Siciliani, il Ferrucci, Balilla…) che con la patria e la nazione poco avevano a che fare, se non altro perché ai loro tempi i relativi concetti non erano stati ancora inventati.  Pensate alle evidenti difficoltà di un autore incapace di trovare un giusto equilibrio tra il contingente (onde le oscure allusioni alla solidarietà con la Polonia in funzione antiaustriaca) e il preterito, come il ricordo delle vittorie degli antichi romani, e alla sua ostinata chiusura di fronte ai molti valori della nostra storia non unitaria, quelli artistici e culturali compresi.  Tutta roba da far venire, come dicono i letterati, il latte alle ginocchia.
        Certo, a quei tempi gli inni li si faceva così.   Non tutti avevano la fortuna di trovare un Rouget de l’Isle capace di dar voce con efficacia e senza retorica alle dure necessità del momento.  Alla brutalità della Marsigliese gli uomini del Risorgimento italiano preferivano, d’altronde, sottrarsi e nella retorica neoclassica vedevano un utile antidoto a quello che altrimenti sarebbe stato un invito un po’ troppo esplicito alla rivoluzione, che, come insegnava appunto la Francia, si sa dove comincia, ma non dove finisce.  A quell’inquietante “allarmi cittadini, formate i vostri battaglioni” preferivano di gran lunga un più aulico “stringiamoci a corte, siam pronti alla morte”, che aveva, se non altro, il vantaggio di lasciare volutamente nel vago l’indicazione di che cosa bisognasse fare nel concreto e non precisava neanche in nome di cosa i bravi patrioti dovessero far blocco e morire.
        Perché, a pensarci bene, l’inno che, nella contrapposizione tra monarchia e repubblica, è stato a lungo il contraltare di quello di Mameli, la vecchia Marcia Reale di Giuseppe Gabetti, era (ed è) altrettanto brutto sul piano dei versi e su quello della melodia, ma, se non altro, ripetendo non so quante volte l’augurio di “Viva il re!”, non lasciava dubbi sulle scelte politiche e istituzionali che l’autore auspicava.  L’Inno di Mameli, invece, non so se l’avete notato, è l’unico inno repubblicano che non contiene nemmeno una volta la parola “repubblica”.  Al di là delle rievocazioni mitologiche e pseudostoriche, la sua dimensione ideale si esaurisce nel ritornello, in quell’invito cadenzato e ripetuto a stringersi a corte sfidando la morte, perché se l’Italia chiama, perbacco, non si può far altro che correre.
        E qui sta il punto.  Io le persone con cui stringermi a corte, che volete che vi dica, preferisco scegliermele di persona.  Il semplice fatto che siano italiani non mi basta.   Non vorrei dovermi trovare ad affrontare l’estremo pericolo fianco a fianco, che so, del presidente Berlusconi e dell’onorevole La Russa, non più di quanto mi solletichi l’idea di trovarmi in quella estrema evenienza in compagnia, non dico di Erika e Omar, ma semplicemente di Bruno Vespa, del senatore Agnelli, di Massimo Alberoni o del cardinale Biffi.  In più, ho la forte sensazione che se continueremo a essere, come dice il poeta, “calpesti e derisi” questo non dipenderà tanto dalla mancanza di unità nazionale, quanto dallo scarso spessore della nostra classe dirigente (opposizione compresa) e dalla superficialità della cultura che esprime.  Goffredo Mameli merita il nostro ricordo, se non altro perché non esitò, a ventidue anni di età, a farsi ammazzare in nome delle proprie idee, ma il migliore omaggio che si possa rendere alla sua memoria è quello di lasciare pietosamente cadere nel dimenticatoio quei bruttissimi versi.  E, in definitiva, a cosa potrebbe servirci, oggi, l’elmo di Scipio?  Vittorio Emanuele II, che, in fondo, era un Padre della Patria allo stesso titolo di Mazzini, diceva che lo si sarebbe dovuto utilizzare per feie drinta la pasta sütta, per “farci dentro la pasta asciutta”, ma forse non è il caso di citare il punto di vista di un re su quello che resta, bene o male, un simbolo repubblicano.  Meglio rimandarlo al Museo.  Con i sensi, s’intende, del più profondo rispetto.

02.06.’02