La pratica e gli obiettivi

La caccia | Trasmessa il: 02/22/2004



Dunque, il presidente del consiglio ha dichiarato (“Repubblica”, 18.02 u.s.), che anche se, come taluno auspica, lo batostassero alle europee, si guarderebbe dal mollare la carica, come aveva fatto a suo tempo D’Alema.  Di evidenza immediata le motivazioni: “il signor D’Alema” ha spiegato il nostro “a Palazzo Chigi c’era arrivato con una congiura di palazzo” mentre lui ci sta “perché il 50 per cento degli italiani, anzi il 49,8 ha fatto una croce sul nome di Silvio Berlusconi”.
Niente di diverso, naturalmente, ci saremmo aspettati da lui.  La cultura politica del paese è bassina e il capo del governo non può che rifletterla.  Di fatto, non sono stati in tantissimi a obiettare che, in una repubblica parlamentare qual è ancora la nostra, Berlusconi e D’Alema, in fondo, al governo ci sono arrivati secondo la stessa, identica procedura, perché l’uno e l’altro hanno ricevuto il relativo mandato dal presidente della repubblica in carica sulla base dei rapporti parlamentari di volta in volta vigenti.  E visto che – come è noto – le elezioni europee in sé non modificano la situazione in parlamento, il problema non sarebbe tanto di obblighi costituzionali quanto di sensibilità politica, un tema che a chi sfoggia una pelle di rinoceronte come quella del cavaliere dice davvero poco.  Di uno che pone il voto di fiducia sulla difesa delle sue proprietà e che non riesce nemmeno a dimettersi dalla presidenza onoraria del Milan è difficile pensare che possa, non diciamo capire, ma soltanto immaginare certe sfumature.
        Il fatto è che l’investitura parlamentare, che pure è bastata a tutti i presidenti del consiglio della nostra storia unitaria, salvo quelli, come Mussolini e i suoi immediati successori, che hanno preferito affidarsi al colpo di stato, a Berlusconi non interessa affatto.  Lui vuole l’investitura popolare.  E in un certo senso, purtroppo, la ha avuta, nel senso che è vero che il 49,8 per cento, se non proprio degli italiani, almeno degli elettori votanti, ha fatto una croce sul suo nome.  Di scarso interesse, salvo che per chi ha a cuore la correttezza procedurale, resta il fatto che quel nome sulla scheda ci fosse, più che per legge, sulla base di un discutibile escamotage.  Nessuno ha mai cambiato, che io sappia, le norme costituzionali sull’investitura del presidente del consiglio dei ministri, prevedendone, come per i sindaci delle grandi città e i presidenti delle province e delle regioni, l’elezione diretta.  Lui si è limitato ad aggirare le norme inserendo il suo nome, come un motivo grafico, nel simbolo della coalizione che lo sosteneva.  È stato eletto, così, con una procedura extralegale e, probabilmente, illegale e il fatto che quei deficienti dell’opposizione, invece di strillare come aquile, si siano affrettati a imitarlo, inserendo anch’essi nel simbolo dell’Ulivo il nome del povero Rutelli, non serve a sanare l’illegalità.  Come devo aver già avuto modo di ricordare, la pratica di “battezzare” le liste e personalizzare i simboli è stata inventata, a suo tempo, dal noto Marco Pannella e dovrebbe bastare questo per fare capire quanto nociva possa essere.  Nessun sistema politico è perfetto, ma da un sistema modificato per via surrettizia, che funziona – cioè – in modo diverso da quello in cui dichiara di funzionare, non ci si può aspettare niente di buono.
        Ma l’uomo è fatto così.  Quello che vuole, regole o non regole, se lo prende e peggio per chi ci sta.  Visto che sarebbe lungo e complicato trasformare la costituzione della repubblica in senso presidenziale, gli basta comportarsi come se il presidenzialismo ci fosse già.  Per questo preferisce farsi chiamare “premier” invece che “presidente del consiglio dei ministri” (ed è un peccato che nel mondo dei media trovi tanti servi disposti ad assecondarlo), per questo quando può si esibisce su un podio sormontato da un pataccone mutuato da quello del presidente degli Stati Uniti, o prende delle iniziative di politica estera, come quelle di invitare capi di stato e affini nella sua residenza privata, o presenziare al matrimonio dei loro congiunti, che non sono previste da alcun protocollo.  E se nulla di tutto questo è, ovviamente, illegale, non è detto che il nostro non sappia, se necessario, andar oltre.  In fondo, la logica di questi comportamenti è la stessa in base alla quale, non essendo in grado di ridurre, come promesso, il carico fiscale, opera in via informale assolvendo a priori quei cittadini abbienti che il carico se lo autoriducono evadendo le tasse.

A proposito di autoriduzione.   Tutta questa faccenda mi fa venire in mente, in un certo senso, i tempi lontani della giovinezza, quando il disordine era grande sotto il cielo e la situazione, senza essere davvero eccellente, era, a quanto ricordo, abbastanza interessante.  Vigeva allora, in alcune delle organizzazioni estremiste che turbavano la pace sociale, una strategia nota talvolta ai teorici come “pratica dell’obiettivo”.  Era quella, per intendersi del “prendiamoci la città”, la prassi per cui la riforma della casa consisteva nell’occuparla e non pagare l’affitto e il problema del potere di acquisto dei salari si poteva risolvere con qualche forma di “esproprio proletario”.  Tutte pratiche disdicevolissime, eh, che, si diceva, avrebbero portato il paese sull’orlo del baratro e da cui, d’altronde, quasi tutti coloro che le sostenevano si sono debitamente dissociati da tempo.   Ma erano propugnate da forze che si consideravano, a torto o a ragione, rivoluzionarie, e quindi, nel tentativo di rovesciare il “sistema”, dispiegavano, se non altro, una certa rozza logica.  Oggi gli obiettivi sono evidentemente cambiati, ma la pratica, a quanto pare, resta la stessa.  E vederla applicata, a modo suo, da Sua Eccellenza il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri fa un certo effetto.  Succede sempre così, avremmo detto allora, con il nemico di classe.  Se solo gli fai capire di avere una buona idea, te la frega subito.

22.02.’04