Dunque, il presidente del consiglio
ha dichiarato (“Repubblica”, 18.02 u.s.), che anche se, come taluno auspica,
lo batostassero alle europee, si guarderebbe dal mollare la carica, come
aveva fatto a suo tempo D’Alema. Di evidenza immediata le motivazioni:
“il signor D’Alema” ha spiegato il nostro “a Palazzo Chigi c’era arrivato
con una congiura di palazzo” mentre lui ci sta “perché il 50 per cento
degli italiani, anzi il 49,8 ha fatto una croce sul nome di Silvio Berlusconi”.
Niente di diverso, naturalmente, ci
saremmo aspettati da lui. La cultura politica del paese è bassina
e il capo del governo non può che rifletterla. Di fatto, non sono
stati in tantissimi a obiettare che, in una repubblica parlamentare qual
è ancora la nostra, Berlusconi e D’Alema, in fondo, al governo ci sono
arrivati secondo la stessa, identica procedura, perché l’uno e l’altro
hanno ricevuto il relativo mandato dal presidente della repubblica in carica
sulla base dei rapporti parlamentari di volta in volta vigenti. E
visto che – come è noto – le elezioni europee in sé non modificano la
situazione in parlamento, il problema non sarebbe tanto di obblighi costituzionali
quanto di sensibilità politica, un tema che a chi sfoggia una pelle di
rinoceronte come quella del cavaliere dice davvero poco. Di uno che
pone il voto di fiducia sulla difesa delle sue proprietà e che non riesce
nemmeno a dimettersi dalla presidenza onoraria del Milan è difficile pensare
che possa, non diciamo capire, ma soltanto immaginare certe sfumature.
Il
fatto è che l’investitura parlamentare, che pure è bastata a tutti i presidenti
del consiglio della nostra storia unitaria, salvo quelli, come Mussolini
e i suoi immediati successori, che hanno preferito affidarsi al colpo di
stato, a Berlusconi non interessa affatto. Lui vuole l’investitura
popolare. E in un certo senso, purtroppo, la ha avuta, nel senso
che è vero che il 49,8 per cento, se non proprio degli italiani, almeno
degli elettori votanti, ha fatto una croce sul suo nome. Di scarso
interesse, salvo che per chi ha a cuore la correttezza procedurale, resta
il fatto che quel nome sulla scheda ci fosse, più che per legge, sulla
base di un discutibile escamotage. Nessuno ha mai cambiato, che io
sappia, le norme costituzionali sull’investitura del presidente del consiglio
dei ministri, prevedendone, come per i sindaci delle grandi città e i presidenti
delle province e delle regioni, l’elezione diretta. Lui si è limitato
ad aggirare le norme inserendo il suo nome, come un motivo grafico, nel
simbolo della coalizione che lo sosteneva. È stato eletto, così,
con una procedura extralegale e, probabilmente, illegale e il fatto che
quei deficienti dell’opposizione, invece di strillare come aquile, si
siano affrettati a imitarlo, inserendo anch’essi nel simbolo dell’Ulivo
il nome del povero Rutelli, non serve a sanare l’illegalità. Come
devo aver già avuto modo di ricordare, la pratica di “battezzare” le
liste e personalizzare i simboli è stata inventata, a suo tempo, dal noto
Marco Pannella e dovrebbe bastare questo per fare capire quanto nociva
possa essere. Nessun sistema politico è perfetto, ma da un sistema
modificato per via surrettizia, che funziona – cioè – in modo diverso
da quello in cui dichiara di funzionare, non ci si può aspettare niente
di buono.
Ma
l’uomo è fatto così. Quello che vuole, regole o non regole, se lo
prende e peggio per chi ci sta. Visto che sarebbe lungo e complicato
trasformare la costituzione della repubblica in senso presidenziale, gli
basta comportarsi come se il presidenzialismo ci fosse già. Per questo
preferisce farsi chiamare “premier” invece che “presidente del consiglio
dei ministri” (ed è un peccato che nel mondo dei media trovi tanti servi
disposti ad assecondarlo), per questo quando può si esibisce su un podio
sormontato da un pataccone mutuato da quello del presidente degli Stati
Uniti, o prende delle iniziative di politica estera, come quelle di invitare
capi di stato e affini nella sua residenza privata, o presenziare al matrimonio
dei loro congiunti, che non sono previste da alcun protocollo. E
se nulla di tutto questo è, ovviamente, illegale, non è detto che il nostro
non sappia, se necessario, andar oltre. In fondo, la logica di questi
comportamenti è la stessa in base alla quale, non essendo in grado di ridurre,
come promesso, il carico fiscale, opera in via informale assolvendo a priori
quei cittadini abbienti che il carico se lo autoriducono evadendo le tasse.
A proposito di autoriduzione.
Tutta questa faccenda mi fa venire in mente, in un certo senso, i tempi
lontani della giovinezza, quando il disordine era grande sotto il cielo
e la situazione, senza essere davvero eccellente, era, a quanto ricordo,
abbastanza interessante. Vigeva allora, in alcune delle organizzazioni
estremiste che turbavano la pace sociale, una strategia nota talvolta ai
teorici come “pratica dell’obiettivo”. Era quella, per intendersi
del “prendiamoci la città”, la prassi per cui la riforma della casa consisteva
nell’occuparla e non pagare l’affitto e il problema del potere di acquisto
dei salari si poteva risolvere con qualche forma di “esproprio proletario”.
Tutte pratiche disdicevolissime, eh, che, si diceva, avrebbero portato
il paese sull’orlo del baratro e da cui, d’altronde, quasi tutti coloro
che le sostenevano si sono debitamente dissociati da tempo. Ma erano
propugnate da forze che si consideravano, a torto o a ragione, rivoluzionarie,
e quindi, nel tentativo di rovesciare il “sistema”, dispiegavano, se
non altro, una certa rozza logica. Oggi gli obiettivi sono evidentemente
cambiati, ma la pratica, a quanto pare, resta la stessa. E vederla
applicata, a modo suo, da Sua Eccellenza il Signor Presidente del Consiglio
dei Ministri fa un certo effetto. Succede sempre così, avremmo detto
allora, con il nemico di classe. Se solo gli fai capire di avere
una buona idea, te la frega subito.
22.02.’04