Chissà se è vero che Berlusconi da piccolo
era uno studente brillante quanto si vanta di essere stato. In età
adulta, talvolta, sembra un po’ duro di comprendonio. Gli ci sono
voluti due anni di liti con gli alleati e tre sconfitte elettorali di seguito
per scoprire che in Italia la costituzione vigente non gli permetteva di
cambiare i collaboratori a suo arbitrio, mentre altrove, nei paesi europei
più avanzati, “il premier eletto direttamente dal popolo adegua la squadra
di governo ogni volta che si presenta la necessità, senza lunghe ed estenuanti
crisi politiche e verifiche parlamentari.” È, questa, una citazione
dal suo discorso in Senato, che, a prescindere dallo scarso fair play,
nel senso che non si va in parlamento a dire che le verifiche parlamentari
sono inutili ed estenuanti, contiene un clamoroso errore di terminologia,
perché in Europa e altrove, a voler fare i pignoli, di premier eletti
direttamente dal popolo se ne trova uno solo in Israele, che non è esattamente
un modello da proporre all’ammirazione universale, ma, insomma, tra presidenzialismi,
cancellierati, dittature e premierati forti, di governanti con più
poteri dei suoi in giro ce ne sono parecchi e si capisce che il poveretto
se ne accori e faccia un poco di confusione.
D’altra
parte, bisogna pur ammettere che all’inizio della settimana, quando ancora
si cullava nella speranza di evitare la crisi e strillava come un’aquila
contro le pretese di chi lo voleva succube di un Follini qualsiasi, il
presidente del consiglio non aveva del tutto torto. Era vero, in
fondo, che la maggioranza dei cittadini, a suo tempo, aveva tracciato (sia
pure con poca saggezza) una croce sopra il suo nome e il fatto che quel
nome sulla scheda non fosse previsto dalle norme elettorali, ma ci fosse
arrivato per via impropria, come componente grafica del simbolo della coalizione,
tutto sommato contava solo fino a un certo punto. Il che, al di fuori
di ogni considerazione bassamente caratteriale, spiega a iosa la riluttanza
con cui l’uomo ha affrontato una procedura dalla quale riteneva
di potersi benissimo esimere.
Il
fatto è che Berlusconi, nella sua ansia di traghettare il paese dalla prima
alla seconda (e forse alla terza) repubblica, ha preso, per così dire,
qualche scorciatoia. Non aveva né il modo né la possibilità di cambiare
il quadro istituzionale, istituendo l’agognato premierato, e si è limitato
a farsi chiamare premier dagli amici, certo che l’uso, come succede, si
sarebbe generalizzato. Ha capito che introdurre l’elezione diretta
era più facile a dirsi che a farsi e si è fatto eleggere direttamente,
se mi è consentito il bisticcio, in modo indiretto. Non potendo cambiare
i ministri in blocco, si è avvalso a dismisura del potere di cambiarli
a uno per volta. Ha giocato, insomma, su quel primato dell’apparenza
che in Italia funziona sempre, su quella pratica del “come se” in base
alla quale tra potere e legalità a prevalere è sempre il potere, la legalità
rappresenta un inutile intralcio e a doversi adeguare, in sostanza, sono
solo gli altri.
Siccome
della legalità, in questo nostro paese, non importa niente a nessuno, nemmeno
ai giudici, e l’argomento pragmatico (nella versione semplificata per
cui chi vince ha ragione) conta sempre più degli altri, per un po’ gli
è andata anche bene. Ma in Italia, com’è noto, con la politica si
fa come con il maiale: non si butta mai via niente. Appena l’aria
è cambiata (come certificato dalla batosta alle regionali) i soci del sedicente
premier si sono affrettati a recuperare quelle ritualità e quelle minutiae
politiche di cui prima si vantavano di essersi sbarazzati. E così
lui, dal rango di nuovo uomo della Provvidenza, come lui stesso si era
modestamente definito (allegando, per sicurezza, la testimonianza di un
morto) e di statista uso, a suo dire, a intrattenersi alla pari con Bush
e a giocare a lippa con Putin, si è ritrovato a dover fare i conti con
il manuale Cencelli.
Gli
sta bene, naturalmente, e d’altronde era stato lui, sempre in base al
principio di cui dicevamo, a rivendicare l’eredità della Democrazia Cristiana.
Il guaio, dal nostro punto di vista, è che l’esperienza probabilmente
lo ha incattivito, incrementandone la nota propensione a far danno. Ma,
visto che da noi la politica del maiale non è appannaggio esclusivo della
destra, finché l’opposizione non saprà fare altro che imitare i suoi modi
e sperare, al massimo, nell’effetto moderatore di Follini, non si vede
proprio come poterglielo impedire.
24.04.’05