la pista per eccellenza

La caccia | Trasmessa il: 03/03/2002



Il movimento anarchico esiste, più o meno, da due secoli.  Figlio dell’Illuminismo, e in particolare del pensiero di Jean-Jacques Rousseau e di William Goodwin, asserisce come proprio fondamento il principio per cui gli uomini, esseri ragionevoli per natura, potranno vivere in pace e fratellanza solo quando si saranno liberati dalle costrizioni e dalle pastoie sociali che, per ora, impediscono l’estrinsecarsi della loro basilare mitezza.  Questo non esclude, naturalmente, che per raggiungere certi obiettivi si possa o si debba ricorrere, se necessario, a forme di lotta violenta, ma garantisce un’impostazione di fondo piuttosto pacifica.  Di fatto, dell’orgia di violenza che si è abbattuta sul pianeta in questi ultimi duecento anni, gli anarchici, che, pure, non sono sempre stati così minoritari come oggi, sono stati responsabili in misura infinitesimale.  Solo per un breve periodo, dopo la morte di Mikhail Bakunin, che l’aveva (più o meno) teorizzata, qualche loro settore ha creduto alla “propaganda attraverso il gesto”, come a dire nella eliminazione fisica di certe figure emblematiche del potere: una pratica invero assai poco libertaria, che vide tra le sue vittime, com’è noto, il presidente francese Carnot nel 1894, l’imperatrice Elisabetta d’Austria nel 1898, il re d’Italia Umberto I nel 1900 e il presidente degli Stati Uniti McKinley nel 1901.  Ma fu, per fortuna di tutti, una breve fiammata e, d’altronde, sono cose di un secolo fa.  Quanto al terrorismo vero e proprio, alla pratica, cioè, di creare delle situazioni di pericolo a livello di massa con apparati esplosivi o altro, è sempre stato lontano dalle forme anarchiche di lotta.  Qualche brutto episodio agli anarchici va addebitato senz’altro (il più noto, in Italia, e, per quanto mi costa, l’ultimo) resta quello delle bombe al teatro Diana di Milano, del 23 marzo 1921, che fecero ben ventun vittime), ma infinitamente meno di quanti costellano la storia di movimenti di tutt’altra natura, come quello sionista in Palestina negli anni della lotta anticoloniale, o la causa dell’indipendenza irlandese in certi periodi.  Naturalmente di imbecilli se ne trovano dovunque, per cui ci sono canzoni anarchiche che inneggiano alla dinamite e una volta che mi è capitato di sostenere delle tesi simili a queste sulla più diffusa delle riviste anarchiche alcuni lettori se ne sono adontati, come se li avessi accusati di essere imbelli, ma questo conta poco.  Oggi, dopo Oklahoma City e il World Trade Center, sappiamo tutti che gli specialisti in materia di esplosivi e terrore vanno cercati (o dovrebbero essere cercati) altrove.
Dovrebbero, perché di fronte a ogni botto appena superiore a quello di un petardo, a ogni esplosione che turba, nei momenti di tensione politica,  la convivenza civile, si alza sempre qualche imbecille di alto livello che scopre, magari per esclusione, la “pista anarchica”.   C’è sempre un ministro, un funzionario, un leader, che, pur ammettendo, bontà sua, la necessità di indagare “in tutte le direzioni”, propone l’equazione tra terrorismo e anarchia.  A costoro, ahimè, non serve uno sforzo di immaginazione particolare: dai tempi dei giacobini, che credevano nella Libertà ed erano devoti anche loro a Rousseau, ma nel concreto preferivano esercitare sui singoli quel tanto di controllo necessario per impedirgli di fare delle sciocchezze, a costo di tagliargli – sia pure con rincrescimento – la testa, c’è sempre stata gente per cui gli anarchici sono, di necessità, propensi alla violenza, nel senso che ogni individuo, liberato dalle costrizioni provvidenzialmente poste a difesa dell’armonia sociale dall’autorità costituita, non può che dare il peggio di sé, liberando le proprie pulsioni più nocive.  La giustapposizione, che si potrebbe ricondurre, su un piano meramente ideologico, a un maggiore o minore ottimismo a proposito di quello che i singoli possono fare se lasciati in balia di se stessi, ha sempre avuto delle conseguenze pratiche piuttosto rilevanti.  Alla fiducia nello stato di natura, si contrappone, di fatto, quella nello Stato di polizia.   E anche se la storia ci insegna che la prontezza nel denunciare la violenza anarchica nasconde, il più delle volte, un qualche progetto di repressione violenta e illiberale, secondo un modello che si è ripetuto immutabile, con minime varianti, dai fatti di Chicago del 1886 all’attentato di piazza Fontana nel 1969 e oltre, c’è sempre chi, come il ministro Scajola, non si vergogna dal farla propria.
Il problema non consiste nell’evidente arretratezza della cultura politica di un ministro così pronto a nascondersi dietro un luogo comune.  Dell’analfabetismo culturale di tutta la classe dirigente cui appartiene costui abbiamo comunque più prove di quante ce ne servano.  E non consiste neanche nel fatto che conclamando la pista anarchica si manifesta l’intenzione di perseguitare gli anarchici.   Se così fosse, sarebbe una gran brutta cosa, ma in fondo, oggi come oggi, a esserne coinvolti sarebbero in pochi.  Il fatto è che le “piste anarchiche”, per la loro stessa vaghezza, si prestano ottimamente a perseguitare chiunque.  Servono per emanare leggi speciali, introdurre procedure abbreviate, eliminare garanzie fastidiose, imporre attestazioni di lealtà e legittimare, nel proprio esclusivo interesse, ogni genere di discriminazione ai danni degli avversari.  È tutto un tristo balletto cui, per nostra sventura, ci è già capitato di assistere e che si è concluso, nel caso qualcuno l’avesse dimenticato, in una perdita netta di democrazia per tutta la società.  È facilissimo finire in un elenco di cattivi maestri, o vedersi colpire da un’accusa di concorso morale: molto meno facile liberarsi delle conseguenze di queste, e analoghe, imputazioni.   E il fatto che, stando al ben noto aforisma marxiano, ciò che la prima volta si è presentato come tragedia non possa che ricomparire, la seconda, come farsa, non è poi quella grandissima consolazione.

03.03.’02