La peggiore delle sineddoche

La caccia | Trasmessa il: 03/04/2007



Non lo dico per vantarmi, ma sono sempre stato attento, sin dalla prima infanzia, alle esigenze del “politicamente corretto”.  Anche prima che il termine fosse inventato ed elaborata la precettistica relativa, mi sono sempre sforzato di evitare, nel definire i miei simili, le espressioni offensive o, semplicemente, sgradite.  Consapevole, prima ancora di aver letto il Cratilo di Platone, che l’atto del nominare non è mai neutro ideologicamente, ma implica complesse questioni di potere e di gerarchia sociale, ho sempre evitato quegli appellativi che, pur nella loro apparente innocuità, potevano sottintendere una deviazione dal retto e faticoso sentiero dell’eguaglianza e del rispetto reciproco.
        O almeno così credevo.  Perché apprendo adesso, da una corrispondenza di Vittorio Zucconi su “Repubblica” di domenica scorsa (25.02) di essermi servito per anni, in quella che potremmo definire la mia fase formative, di uno dei termini più offensivi che la cultura maschile abbia mai utilizzato per definire l’altra metà del cielo.  È capitato anche a me, giocando, da piccolo, agli indiani con gli amichetti o i soldatini, o riferendo delle mie letture nel genere western, di usare, non senza compiacimento, la parola squaw.  E il fatto che probabilmente la pronunciassi “squav” non basta certo a farmi assolvere dall’implicita sfumatura dispregiativa che il lemma, come scopro adesso, contiene.
        Qualche giustificazione, naturalmente, l’avevo.  Nelle mie fonti, il termine era impiegato da personaggi che, quanto a rispetto per gli altri e proprietà di linguaggio, erano proprio al di sopra di ogni sospetto.  Da Pecos Bill, per esempio, che per la mia generazione incarnava il ruolo che avrebbe avuto, per le successive, Tex Willer.  O da Penna Bianca, che compariva addirittura su “Topolino”, un periodico così attento alle sfumature di stile da imporre ai suoi autori, traduttori o sceneggiatori che fossero, di evitare qualsiasi parola che, ancorché in sé del tutto innocente, potesse suscitare collegamenti men che sicuri, sì che, per esempio, su quelle pagine non si poteva assolutamente scrivere “uccello”, essendo assai preferibile, quando ve ne fosse necessità, ricorrere all’espressione “amico pennuto”.   E tanto Pecos Bill quanto Penna Bianca, riferendosi alle donne indigene con cui erano in relazione, le chiamavano tranquillamente squaw.  Per Penna Bianca, che era un piccolo, amabilissimo indiano, sia pure un po’ tontolone, erano squaw anche la madre e le sorelle.
        Be’, si sbagliava anche lui.  La parola è tutt’altro che adatta all’impiego in famiglia.  Pur derivata, a quanto sembra, dall’algonchino ethskeewa, che significa semplicemente “femmina” (o, al massimo, “ragazza”), ha assunto, storpiandosi nell’uso delle lingue degli altri nativi americani e dei conquistatori europei, tutt’altra, deplorevolissima, connotazione.  Oggi la si usa, in pratica,  come sineddoche –  quel sottogenere di metonimia di cui ci serviamo quando nominiamo la parte per il tutto – e la parte che nomina per significare la femmina umana è proprio quella che ne segnala la femminilità come oggetto di desiderio (maschile).  La peggiore delle sineddoche, insomma, e non c’è da stupirsi se molte organizzazioni femminili delle cinquantacinque nazioni e tribù attualmente costituite nel territorio degli Stati Uniti abbiano lanciato una campagna per l’abolizione del termine e la sua cancellazione dai documenti in cui sia registrato come nome proprio.   Perché la parola, come se non bastasse il suo impiego colloquiale, ha lasciato ampie tracce sul terreno e sulle carte geografiche, che registrano, oltre alla celebre Squaw Valley dello Utah, dove si sono svolti i giochi olimpici invernali del 1960, numerosi (e incongrui) Squaw Peaks in vari stati, per non dire dei monti Big Squaw nel Maine, dello Squaw Creek nel Missouri, degli Squaw Gardens nell’Oregon e di altri piuttosto imbarazzanti toponimi.
        In tutta franchezza, non so proprio che cosa dirvi.  Io, per quanto mi riguarda, ho fatto un accurato esame di coscienza e credo di poter onestamente affermare che, passata appunto l’età dei giochi infantili, quella parola non mi è mai più salita alle labbra.  Non mi sembra, oltretutto, di aver mai conosciuto di persona delle native americane, salvo quelle due o tre cui posso essermi rivolto dall’altra parte di un banco di coffee shop in Arizona o in Colorado, quando visitavo, tanti anni fa, quelle straordinarie regioni, e in quei casi sono sicuro di non essermi mai indirizzato loro con altro appellativo che l’equivalente americano di “signora”.  Né, d’altro canto, io o gli autori delle storie di Penna Bianca, di Pecos Bill e di Tex Willer eravamo, allora, veramente colpevoli.  Del tutto ignari di sineddoche e metonimie ci limitavamo a impiegare una espressione linguistica inconsueta come una specie di marker lessicale,  per dare al nostro discorso una connotazione blandamente etnica, un tocco di innocuo esotismo che serviva soltanto a fare capire che nel selvaggio West e non altrove ci trovavamo o fingevamo di trovarci.  Ma l’ignoranza non è mai una giustificazione e l’idea di essere stato, sia pur innocentemente, coinvolto in un contesto linguistico così deplorevole, ebbene sì, un po’ mi dà fastidio.  È proprio vero che non si sta mai abbastanza attenti.

04.03.’07