Tutti i mezzi d’informazioni, Radio
Popolare compresa, si sono premurati di assicurarci che a Kabul è tornata
la musica. Che gli uomini fanno a gara a farsi tagliare la barba.
Che le donne potranno, volendo, dismettere il burqa, anche se non
lo hjab, come assicura da Peshawar, bontà sua, tale Sayed Ahmed Gailani,
“il grande vecchio dello schieramento monarchico”, e visto che lo hjab
lascia scoperte le mani, i piedi e la faccia e sotto non è necessario portare
altri indumenti, è già un bel progresso. Le ragazze, d’altronde,
potranno tornare subito a scuola, o, meglio, potrebbero farlo, se in quei
mucchi di rovine cui sono attualmente ridotte le città afghane ci fosse
una scuola in piedi.
Sono
tutte buone notizie e speriamo che siano vere. Come speriamo che
le agenzie abbiano smesso di riferire di massacri, vendette etniche e fucilazioni
nelle strade, come succedeva nei primi giorni dopo l’arrivo dei mujaddin,
perché di massacri, vendette e fucilazioni non se ne verificano più, e
non perché qualcuno ha pensato che non era il caso di turbare il pubblico
occidentale con queste spiacevolezze. In effetti, per la grande stampa
è molto più tranquillizzante insistere sulla musica che fuoriesce gioiosa
dalle radioline dei taxi, sugli aquiloni che i bambini fanno volare sulle
macerie e sul fatto che tra le merci offerte in vendita nei bazar ci siano
nuovamente i rossetti.
Le immagini televisive, a dire il vero,
non confermano al cento per cento le parole che giungono da Kabul. Ci
mostrano, soprattutto, delle masse inquiete di uomini più o meno barbuti
e una quantità di camion carichi di militari che scorazzano tra le rovine
polverose. La situazione, d’altronde, è tutt’altro che tranquilla
e gli stessi giornali che ci descrivono un Afghanistan liberato e ormai
prossimo a uscire dalle tenebre del medioevo, devono ricordare, in taglio
basso nelle pagine interne, che la guerra, comunque, continua e che continuerà
a lungo, perché lo scopo degli alleati, in fondo, non era quello di riportare
la modernità in quel paese, ma di eliminare il terrorismo internazionale
e da questo punto di vista il lavoro è ancora tutto da fare. I nostri
ragazzi, per fare un esempio a caso, non sono ancora partiti da Brindisi:
una situazione, per qualche verso, imbarazzante, tanto è vero che qualcuno
ha proposto di mandare in zona di operazioni, finché si fa in tempo, una
qualche avanguardia, magari un contingente di carabinieri, che, ancorché
non perfettamente informati sulla società afghana e sui suoi problemi,
potranno utilmente contribuire a mantenere l’ordine pubblico.
Insomma, che volete: c’era tanto bisogno
di buone notizie, di poter dire che questa guerra insensata qualche risultato
l’aveva prodotto, che per qualche giorno si è preferito mettere tra parentesi
persino Bin Laden. Ci sarà tempo per ritrovare i toni bellicosi e
spiegarci che, burqa o non burqa, siamo tutti al fronte. Per
adesso, la musica delle radioline di Kabul fa da colonna sonora alle nostre
illusioni di pace. Alle nostre, dico, perché dell’ottimismo degli
abitanti di quella città, credo, purtroppo, che sia lecito dubitare.
18.11.’01