A detta di Berlusconi, invece di processarlo
avrebbero dovuto dargli una medaglia. È un concetto, questo, che
il presidente del consiglio ha già espresso tre o quattro volte, anche
prima dello show mediatico giudiziario di lunedì scorso, argomentandolo
con la tesi per cui, quando ha bloccato, su mandato – dice oggi – di
Craxi, la vendita del gruppo SME all’ing. De Benedetti per la troppo modica
cifra di 480 miliardi di lire di allora, ha permesso allo stato di incassare,
dismettendo una per una le varie aziende che ne facevano parte, ben quattro
volte tanto.
Sarà. Che tale felice evento abbia
avuto luogo sei anni più tardi, in tutt’altra situazione di mercato, dopo
che l’IRI, e quindi lo stato, aveva dovuto cacciare una montagna di soldi
per rimettere in sesto quello decottissime aziende, naturalmente, il capo
del governo si è guardato dal dirlo. È cosa che non gli interessa.
Come non gli interessa, del resto, il fatto che il processo in corso
non riguardi,a pensarci bene, né le sue motivazioni per sottrarre
la SME a De Benedetti, che era notoriamente un nemico suo, né il profitto
che le finanze pubbliche avrebbero potuto ricavare o non ricavare dall’operazione,
ma si limiti al banale problema di stabilire se, per prevalere nel guazzabuglio
giudiziario seguito a quel suo intervento, egli abbia o non abbia comprato
i giudici a pronta cassa. Di questo particolare, che, pur riferendosi
a fatti anteriori alla sua discesa nell’arringo politico, rivestirebbe,
se chiarito, un certo interesse agli occhi di chiunque fosse interessato
a esprimere, nei suoi confronti, un giudizio morale, l’Uomo di Arcore
non vuole discutere. Anzi, da quanto ci è sembrato capire, non vuole
che ne discuta nessun altro.
Pazienza.
L’argomentazione, in sé, può suonare un po’ fastidiosa, e non del
tutto adeguata al ruolo istituzionale di chi l’avanza, ma è lecita e,
soprattutto, tutt’altro che inedita. È da anni che quando lo accusano
di qualcosa, Berlusconi, semplicemente, cambia argomento e dovremmo esserci
abituati. Quando uno è solito ribattere a ogni possibile critica
dando del comunista a chi gliela muove, non è il caso di meravigliarsi
se, accusato di corruzione di magistrati, risponde che Prodi voleva cedere
la SME sottocosto. Quella del cambiare argomento, d’altronde, è
una mossa cui, prima o poi, ricorriamo tutti e anche se non è citata, a
quanto ricordo, nei manuali di retorica, di solito funziona. O meglio,
funziona immancabilmente quando ce la lasciano usare. Perché è una
mossa fondata sul disprezzo dell’avversario e sulla presunzione di potersi
dettare da sé le regole del dibattito, cambiandone, se necessario, tematiche
e procedure (più o meno come fa chi, giocando a scacchi e vedendo in pericolo
il re, prende la scacchiera e la sbatte con decisione sul cranio dell’avversario),
ed è utilizzabile – quindi – solo da chi ha forza e prestigio sufficienti
per utilizzarla. Una persona normale al terzo, quarto, quinto tentativo
di cambiare le carte in tavola si vedrebbe mandare, con rispetto parlando,
a cagare e dovrebbe rassegnare a entrare, in un modo o nell’altro, nel
merito. Ma la caratteristica principale di Berlusconi è appunto quella
di non considerarsi, a nessun costo, un uomo normale.
Il
futuro, naturalmente, è sulle ginocchia degli dei e vedremo come andrà
a finire. Ma è interessante, nel frattempo, prender nota di quel
“dovevano darmi una medaglia”. Che non è, lo avrete notato, un’espressione
particolarmente originale, né il frutto di una qualsiasi sforzo di acutezza
retorica: è un banalissimo luogo comune, poco più che uno slogan della
stessa famiglia del “lei non sa chi sono io” e del “avrà presto mio
notizie”, un segno vocale caratteristico dell’interloquire di quegli
ometti antipatici e pieni di sé che sono soliti fare casino nelle code
agli uffici postali o nei capannelli al parco, o litigano per il parcheggio,
contestano il conto al ristorante, negano la buona fede del bigliettaio
in tram e parcheggiano l’auto in seconda fila con il freno e la marcia
inserita. È, nella migliore delle ipotesi, un tipico sintomo di
insicurezza, di chi, dubitando fra sé e sé di essere davvero dalla parte
della ragione, si rifugia nella coscienza (o nella presunzione) di un privilegio
personale in grado di esonerarlo dal rispetto di quello regole che considera
necessarie solo per gli altri.
Ahimè,
il complesso di superiorità può fare dei brutti scherzi. L’unico
caso storico che mi viene in mente di un effettivo impiego in tribunale
di quel tipo di argomentazione, in realtà, è quello del processo
a Socrate, nel 399 a.C. ad Atene. Stando, mi sembra, a Senofonte,
il controverso filosofo, convinto di colpevolezza dal tribunale dell’Eliea
e invitato, come prevedeva allora la prassi, a proporre lui stesso una
possibile pena, non chiese che gli attribuissero una medaglia, che allora
non si usava, ma di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo, che
voleva dire più o meno la stessa cosa. Come è noto i giurati, sentendosi
forse presi per i fondelli, optarono per la cicuta. Che tempi, amici,
che tempi.
11.05.’03