La medaglia

La caccia | Trasmessa il: 05/11/2003



A detta di Berlusconi, invece di processarlo avrebbero dovuto dargli una medaglia.  È un concetto, questo, che il presidente del consiglio ha già espresso tre o quattro volte, anche prima dello show mediatico giudiziario di lunedì scorso, argomentandolo con la tesi per cui, quando ha bloccato, su mandato – dice oggi – di Craxi, la vendita del gruppo SME all’ing. De Benedetti per la troppo modica cifra di 480 miliardi di lire di allora, ha permesso allo stato di incassare, dismettendo una per una le varie aziende che ne facevano parte, ben quattro volte tanto.
Sarà.  Che tale felice evento abbia avuto luogo sei anni più tardi, in tutt’altra situazione di mercato, dopo che l’IRI, e quindi lo stato, aveva dovuto cacciare una montagna di soldi per rimettere in sesto quello decottissime aziende, naturalmente, il capo del governo  si è guardato dal dirlo.  È cosa che non gli interessa.  Come non gli interessa, del resto, il fatto che il processo in corso non riguardi,a  pensarci bene, né le sue motivazioni per sottrarre la SME a De Benedetti, che era notoriamente un nemico suo, né il profitto che le finanze pubbliche avrebbero potuto ricavare o non ricavare dall’operazione, ma si limiti al banale problema di stabilire se, per prevalere nel guazzabuglio giudiziario seguito a quel suo intervento, egli abbia o non abbia comprato i giudici a pronta cassa.  Di questo particolare, che, pur riferendosi a fatti anteriori alla sua discesa nell’arringo politico, rivestirebbe, se chiarito, un certo interesse agli occhi di chiunque fosse interessato a esprimere, nei suoi confronti, un giudizio morale, l’Uomo di Arcore non vuole discutere.  Anzi, da quanto ci è sembrato capire, non vuole che ne discuta nessun altro.
        Pazienza.  L’argomentazione, in sé, può suonare un po’ fastidiosa, e non del tutto adeguata al ruolo istituzionale di chi l’avanza, ma è lecita e, soprattutto, tutt’altro che inedita.  È da anni che quando lo accusano di qualcosa, Berlusconi, semplicemente, cambia argomento e dovremmo esserci abituati.  Quando uno è solito ribattere a ogni possibile critica dando del comunista a chi gliela muove, non è il caso di meravigliarsi se, accusato di corruzione di magistrati, risponde che Prodi voleva cedere la SME sottocosto.  Quella del cambiare argomento, d’altronde, è una mossa cui, prima o poi, ricorriamo tutti e anche se non è citata, a quanto ricordo, nei manuali di retorica, di solito funziona.  O meglio, funziona immancabilmente quando ce la lasciano usare.  Perché è una mossa fondata sul disprezzo dell’avversario e sulla presunzione di potersi dettare da sé le regole del dibattito, cambiandone, se necessario, tematiche e procedure (più o meno come fa chi, giocando a scacchi e vedendo in pericolo il re, prende la scacchiera e la sbatte con decisione sul cranio dell’avversario), ed è utilizzabile – quindi – solo da chi ha forza e prestigio sufficienti per utilizzarla.  Una persona normale al terzo, quarto, quinto tentativo di cambiare le carte in tavola si vedrebbe mandare, con rispetto parlando, a cagare e dovrebbe rassegnare a entrare, in un modo o nell’altro, nel merito.  Ma la caratteristica principale di Berlusconi è appunto quella di non considerarsi, a nessun costo, un uomo normale.
        Il futuro, naturalmente, è sulle ginocchia degli dei e vedremo come andrà a finire.   Ma è interessante, nel frattempo, prender nota di quel “dovevano darmi una medaglia”.  Che non è, lo avrete notato, un’espressione particolarmente originale, né il frutto di una qualsiasi sforzo di acutezza retorica: è un banalissimo luogo comune, poco più che uno slogan della stessa famiglia del “lei non sa chi sono io” e del “avrà presto mio notizie”, un segno vocale caratteristico dell’interloquire di quegli ometti antipatici e pieni di sé che sono soliti fare casino nelle code agli uffici postali o nei capannelli al parco, o litigano per il parcheggio, contestano il conto al ristorante, negano la buona fede del bigliettaio in tram e parcheggiano l’auto in seconda fila con il freno e la marcia inserita.   È, nella migliore delle ipotesi, un tipico sintomo di insicurezza, di chi, dubitando fra sé e sé di essere davvero dalla parte della ragione, si rifugia nella coscienza (o nella presunzione) di un privilegio personale in grado di esonerarlo dal rispetto di quello regole che considera necessarie solo per gli altri.
        Ahimè, il complesso di superiorità può fare dei brutti scherzi.  L’unico caso storico che mi viene in mente di un effettivo impiego in tribunale di quel tipo  di argomentazione, in realtà, è quello del processo a Socrate, nel 399 a.C. ad Atene.  Stando, mi sembra, a Senofonte, il controverso filosofo, convinto di colpevolezza dal tribunale dell’Eliea e invitato, come prevedeva allora la prassi, a proporre lui stesso una possibile pena, non chiese che gli attribuissero una medaglia, che allora non si usava, ma di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo, che voleva dire più o meno la stessa cosa.  Come è noto i giurati, sentendosi forse presi per i fondelli, optarono per la cicuta.  Che tempi, amici, che tempi.

11.05.’03