Avrete letto anche voi, qualche tempo
fa, come il senatore Agnelli, forse al fine di assicurarsi, se mai ce ne
fosse bisogno, il favore di una componente importante della futura, probabile
maggioranza, abbia consentito all’esposizione in pubblico, nell’ambito
della rassegna “Novecento: arte e storia in Italia”, allestita presso
le Scuderie papali del Quirinale, di un pregevole quadro della sua collezione
di famiglia. Si tratta di una tela di grandi dimensioni, rappresentante,
ad opera di Giacomo Balla (1871-1958), un episodio della Marcia su Roma.
L’opera, per la precisione, rappresenta Mussolini in compagnia dei
principali gerarchi sullo sfondo di Piazza del Popolo ed è realizzata secondo
i dettami di una tecnica minuziosamente realistica, tanto realistica da
render possibili parecchi puntuali riscontri con la documentazione fotografica
d’epoca. In effetti, a giudicare dalle riproduzioni che si sono
viste sui giornali, ricorda molto quelle vecchie tavole che illustravano
la copertina esterna della “Domenica del Corriere” e sembrerebbe proprio
una fotografia glorificata, se non fosse per il fatto che Mussolini, com’è
noto, alla Marcia su Roma si guardò bene dal partecipare, nel senso che
restò a seguire lo svolgersi degli eventi da Milano, a due salti dal confine
svizzero, e nella capitale si trasferì, in vagone letto, soltanto quando
gli fu comunicato che il re si era rifiutato di firmare lo stato di assedio,
che il governo aveva calato le brache e che tutti erano ansiosi di fare
altrettanto. Ma questa, si sa, è un’altra storia.
Non
bisogna supporre, comunque, che un uomo raffinato come il presidente onorario
della Fiat si tenga in casa una specie di oleografia, raffigurante – per
di più – un episodio che alla storia patria non fa esattamente onore.
La presenza della Marcia su Roma nella collezione della famiglia
Agnelli potrebbe essere più casuale di quanto a uno spirito maligno venga
spontaneo immaginare. Giacomo Balla, che, come ognun sa, visse da
protagonista buona parte della vicenda delle avanguardie artistiche del
secolo testé trascorso e fu particolarmente legato all’esperienza del
futurismo, realizzò quel soggetto nel 1932-’35, utilizzando all’uopo
il retro di una tela di cui già si era servito, quella su cui aveva dipinto,
nel 1913 uno dei suoi capolavori futuristi, “Velocità astratta”. E
non si tratta, badate, di una specie di moderno palinsesto, di un caso
di recupero di un materiale passato ormai d’interesse: l’artista intendeva
evidentemente che l’opera precedente fosse conservata e fruita nella sua
autonomia, tanto è vero che si era premunito, con il semplice espediente
di dipingere le figure della “Marcia su Roma” capovolte rispetto a quelle
della “Velocità astratta”, contro l’eventualità di un’esposizione a
double face. Il possessore dell’opera, insomma, avrebbe potuto decidere
a piacer suo se esporla come un esempio di piaggeria oleografica o come
un modello di sperimentalismo creativo, ma, per cambiare punto di vista,
avrebbe dovuto prendersi il disturbo, oltre che di voltare il quadro, di
capovolgerlo. A meno, naturalmente, che l’avesse fatto montare sul
modello di quelle vecchie lavagne girevoli che un tempo si collocavano
nell’angolo delle aule scolastiche.
Tutto
questo, lo ammetterete, suscita degli interrogativi inquietanti.
E non tanto relativi a quale delle due facciate faccia bella mostra
di sé nel salotto di casa Agnelli. Questa sarebbe soltanto una domanda
indiscreta e, tutto sommato, di scarso interesse. Il vero problema
è quello del perché Balla si sia ridotto a dipingere un quadro (destinato,
sembra, a una esposizione ufficiale celebrativa) sul retro di un altro.
Non credo che lo abbia fatto perché costretto dal bisogno. Non
sono particolarmente informato dei particolari della sua biografia, ma
suppongo che nel 1932 fosse perfettamente in grado di concedersi, volendo,
una tela nuova. Eppure decise di riutilizzarne una già usata, come
se nel momento stesso di compiere quella che, per la sua carriera, almeno
come la conosciamo noi, rappresentava una svolta piuttosto radicale, il
passaggio dall’astratto al figurativo e dallo sperimentale all’accademico,
avesse deciso di riaffermare, in qualche modo, anche il se stesso di prima.
Strana
gente, gli artisti. Con le loro opere danno voce e corpo alle trasformazioni
culturali del mondo in cui vivono, ma non sempre ne traggono tutte le debite
conseguenze. Il futurismo era nato con l’intenzione precisa di capovolgere
i valori artistici, letterari, musicali e financo gastronomici della cultura
borghese, e sarebbe finito, in gran parte, sotto le insegne del fascismo,
che della borghesia, colta o non colta, era allora (e a quanto pare è ancor
oggi) il figlio prediletto. Certo, il fascismo proclamava a gran
voce la sua volontà di cambiare tutto, ma non ci voleva molto a capire
che quelle erano soltanto parole. E anche a volerle prendere sul
serio, c’era modo e modo. Un Marinetti, per citare colui che del
futurismo fu l’indiscusso caposcuola, non poteva non capire che, per chi
aveva esordito nel mondo delle lettere affermando la necessità di ammazzare
il chiaro di luna e di fare a pezzi la Nike di Samotracia, finire presidente
nientemeno che dell’Accademia d’Italia, con feluca e tutto, fosse un
pochino contraddittorio. E difficilmente a Balla sarà sfuggito il
fatto che il percorso che portava dalle “Compenetrazione iridescenti”
e da “Velocità di automobile più luce e rumori” – sono due delle sue
composizioni più note degli anni ’10 – a una celebrazione oleografica
della Marcia su Roma fosse per lo meno contorto.
Be’,
evidentemente lo aveva capito benissimo. E, diversamente da quanto
usano fare i normali voltagabbana, aveva deciso di non fare finta
di niente. La contraddizione, ovviamente, era sua, ma unendo indissolubilmente
l’una all’altra quelle due facciate aveva, se non altro, provato a rimandarla
al mittente. Nel senso che se lui contraddiceva se stesso mettendosi
(per interesse, suppongo) al servizio di altri, voleva che anche quelli
che lo avevano preso a servizio capissero che il servirsi di lui non era
interamente privo di contraddizioni. Come se dicesse cari miei, se
mi volete, dovete prendermi in blocco, “Velocità astratta” del 1913 compresa.
Forse
è tutta una mia fantasia: di arte, come vi ho sempre detto, ci capisco
ben poco e di ideologia dell’arte ancor meno. Ma mi piace l’idea
di chi, nel momento in cui cede, per un motivo qualsiasi, alla necessità
di cambiare rotta, cerca di difendere, in qualche modo, anche la sua rotta
precedente. Vedete, di voltagabbana ne ho visti parecchi e molti
altri, state sicuri, dovremo vederne nei mesi che ci stanno davanti, e
in genere a salvare la dignità del proprio passato non ci pensano affatto.
Anzi, di solito è la prima cosa di cui decidono di sbarazzarsi. In
questo specifico caso, mi sembra sia giusto sottolineare la differenza.
Quanto
al fatto che quel quadro bifronte, chissà attraverso che vie, sia finito
nella collezione della famiglia Agnelli, mi sembra assolutamente normale.
Inevitabile, quasi. Quale che sia il suo significato ideologico,
resta un quadro di valore, nel senso che costa un fracco di quattrini e
se c’è qualcuno che sa quale sia l’esatto rapporto tra significati ideologici
e quattrini, be’, sono proprio i membri di quella antica e onorata famiglia.
Ai quali non può sfuggire, d’altronde, l’utilità di potersi servire,
quando le circostanze lo richiedono, di una marcia in più. Anche
se capovolta (Carlo Oliva).
28.01.’01