La marcia capovolta

La caccia | Trasmessa il: 01/28/2001



Avrete letto anche voi, qualche tempo fa, come il senatore Agnelli, forse al fine di assicurarsi, se mai ce ne fosse bisogno, il favore di una componente importante della futura, probabile maggioranza, abbia consentito all’esposizione in pubblico, nell’ambito della rassegna “Novecento: arte e storia in Italia”, allestita presso le Scuderie papali del Quirinale, di un pregevole quadro della sua collezione di famiglia.  Si tratta di una tela di grandi dimensioni, rappresentante, ad opera di Giacomo Balla (1871-1958), un episodio della Marcia su Roma.  L’opera, per la precisione, rappresenta Mussolini in compagnia dei principali gerarchi sullo sfondo di Piazza del Popolo ed è realizzata secondo i dettami di una tecnica minuziosamente realistica, tanto realistica da render possibili parecchi puntuali riscontri con la documentazione fotografica d’epoca.   In effetti, a giudicare dalle riproduzioni che si sono viste sui giornali, ricorda molto quelle vecchie tavole che illustravano la copertina esterna della “Domenica del Corriere” e sembrerebbe proprio una fotografia glorificata, se non fosse per il fatto che Mussolini, com’è noto, alla Marcia su Roma si guardò bene dal partecipare, nel senso che restò a seguire lo svolgersi degli eventi da Milano, a due salti dal confine svizzero, e nella capitale si trasferì, in vagone letto, soltanto quando gli fu comunicato che il re si era rifiutato di firmare lo stato di assedio, che il governo aveva calato le brache e che tutti erano ansiosi di fare altrettanto.  Ma questa, si sa, è un’altra storia.
        Non bisogna supporre, comunque, che un uomo raffinato come il presidente onorario della Fiat si tenga in casa una specie di oleografia, raffigurante – per di più – un episodio che alla storia patria non fa esattamente onore.  La presenza della Marcia su Roma nella collezione della famiglia Agnelli potrebbe essere più casuale di quanto a uno spirito maligno venga spontaneo immaginare.  Giacomo Balla, che, come ognun sa, visse da protagonista buona parte della vicenda delle avanguardie artistiche del secolo testé trascorso e fu particolarmente legato all’esperienza del futurismo, realizzò quel soggetto nel 1932-’35, utilizzando all’uopo il retro di una tela di cui già si era servito, quella su cui aveva dipinto, nel 1913 uno dei suoi capolavori futuristi, “Velocità astratta”.  E non si tratta, badate, di una specie di moderno palinsesto, di un caso di recupero di un materiale passato ormai d’interesse: l’artista intendeva evidentemente che l’opera precedente fosse conservata e fruita nella sua autonomia, tanto è vero che si era premunito, con il semplice espediente di dipingere le figure della “Marcia su Roma” capovolte rispetto a quelle della “Velocità astratta”, contro l’eventualità di un’esposizione a double face.  Il possessore dell’opera, insomma, avrebbe potuto decidere a piacer suo se esporla come un esempio di piaggeria oleografica o come un modello di sperimentalismo creativo, ma, per cambiare punto di vista, avrebbe dovuto prendersi il disturbo, oltre che di voltare il quadro, di capovolgerlo.  A meno, naturalmente, che l’avesse fatto montare sul modello di quelle vecchie lavagne girevoli che un tempo si collocavano nell’angolo delle aule scolastiche.
        Tutto questo, lo ammetterete, suscita degli interrogativi inquietanti.    E non tanto relativi a quale delle due facciate faccia bella mostra di sé nel salotto di casa Agnelli.  Questa sarebbe soltanto una domanda indiscreta e, tutto sommato, di scarso interesse.   Il vero problema è quello del perché Balla si sia ridotto a dipingere un quadro (destinato, sembra, a una esposizione ufficiale celebrativa) sul retro di un altro.  Non credo che lo abbia fatto perché costretto dal bisogno.  Non sono particolarmente informato dei particolari della sua biografia, ma suppongo che nel 1932 fosse perfettamente in grado di concedersi, volendo, una tela nuova.  Eppure decise di riutilizzarne una già usata, come se nel momento stesso di compiere quella che, per la sua carriera, almeno come la conosciamo noi, rappresentava una svolta piuttosto radicale, il passaggio dall’astratto al figurativo e dallo sperimentale all’accademico, avesse deciso di riaffermare, in qualche modo, anche il se stesso di prima.
        Strana gente, gli artisti.  Con le loro opere danno voce e corpo alle trasformazioni culturali del mondo in cui vivono, ma non sempre ne traggono tutte le debite conseguenze.  Il futurismo era nato con l’intenzione precisa di capovolgere i valori artistici, letterari, musicali e financo gastronomici della cultura borghese, e sarebbe finito, in gran parte, sotto le insegne del fascismo, che della borghesia, colta o non colta, era allora (e a quanto pare è ancor oggi) il figlio prediletto.   Certo, il fascismo proclamava a gran voce la sua volontà di cambiare tutto, ma non ci voleva molto a capire che quelle erano soltanto parole.  E anche a volerle prendere sul serio, c’era modo e modo.  Un Marinetti, per citare colui che del futurismo fu l’indiscusso caposcuola, non poteva non capire che, per chi aveva esordito nel mondo delle lettere affermando la necessità di ammazzare il chiaro di luna e di fare a pezzi la Nike di Samotracia, finire presidente nientemeno che dell’Accademia d’Italia, con feluca e tutto, fosse un pochino contraddittorio.   E difficilmente a Balla sarà sfuggito il fatto che il percorso che portava dalle “Compenetrazione iridescenti” e da “Velocità di automobile più luce e rumori” – sono due delle sue composizioni più note degli anni ’10 – a una celebrazione oleografica della Marcia su Roma fosse per lo meno contorto.
        Be’, evidentemente lo aveva capito benissimo.  E, diversamente da quanto usano fare i normali voltagabbana,  aveva deciso di non fare finta di niente.  La contraddizione, ovviamente, era sua, ma unendo indissolubilmente l’una all’altra quelle due facciate aveva, se non altro, provato a rimandarla al mittente.  Nel senso che se lui contraddiceva se stesso mettendosi (per interesse, suppongo) al servizio di altri, voleva che anche quelli che lo avevano preso a servizio capissero che il servirsi di lui non era interamente privo di contraddizioni.  Come se dicesse cari miei, se mi volete, dovete prendermi in blocco, “Velocità astratta” del 1913 compresa.
        Forse è tutta una mia fantasia: di arte, come vi ho sempre detto, ci capisco ben poco e di ideologia dell’arte ancor meno.  Ma mi piace l’idea di chi, nel momento in cui cede, per un motivo qualsiasi, alla necessità di cambiare rotta, cerca di difendere, in qualche modo, anche la sua rotta precedente.  Vedete, di voltagabbana ne ho visti parecchi e molti altri, state sicuri, dovremo vederne nei mesi che ci stanno davanti, e in genere a salvare la dignità del proprio passato non ci pensano affatto.  Anzi, di solito è la prima cosa di cui decidono di sbarazzarsi.  In questo specifico caso, mi sembra sia giusto sottolineare la differenza.
        Quanto al fatto che quel quadro bifronte, chissà attraverso che vie, sia finito nella collezione della famiglia Agnelli, mi sembra assolutamente normale.  Inevitabile, quasi.  Quale che sia il suo significato ideologico, resta un quadro di valore, nel senso che costa un fracco di quattrini e se c’è qualcuno che sa quale sia l’esatto rapporto tra significati ideologici e quattrini, be’, sono proprio i membri di quella antica e onorata famiglia.   Ai quali non può sfuggire, d’altronde, l’utilità di potersi servire, quando le circostanze lo richiedono, di una marcia in più.  Anche se capovolta (Carlo Oliva).

28.01.’01