La felicità di non essere (più)

La caccia | Trasmessa il: 11/16/2008


    Che Carla Bruni si dichiari “felice di non essere più italiana” non è cosa che possa stupire nessuno. Se ha deciso da tempo di vivere e lavorare in Francia, se in quel paese ha trovato il successo e l'amore (o almeno un buon matrimonio), sarà ben felice di essere diventata francese, no? E se si compiace della nuova nazione che l'ha accolta, non potrà che rallegrarsi di aver lasciato la vecchia: è un problema di coerenza, o, meglio, di tertium non datur. Eppure, qui da noi, qualcuno si è sentito in dovere di protestare, come la ministra Giorgia Meloni, per cui quella riflessione “suscita un interesse che oscilla tra lo zero e lo zero virgola cinque”, ma allora non si capisce perché abbia sentito il bisogno di commentarla, o l'ex presidente Cossiga, che assicura in una sua nota che del cambio di cittadinanza di colei anche noi italiani siamo contenti, anzi, ne “siamo addirittura felici”, ma lo sanno tutti che pur di vedere il proprio nome in istampa l'emerito è capace di dichiarare qualsiasi cosa. Altrettanto si può dire per l'implicito invito all'ipocrisia del sottosegretario Castelli, per cui “la first lady di un paese importante dovrebbe pensare bene prima di parlare” (sai che scoperta e per di più chiamare first lady la moglie del presidente di un paese in cui gli anglicismi sono tanto riprovati è già in sé una gaffe) e per la strana osservazione di Alessandra Mussolini, che, visto che Carla era stata motivata dalla ormai celebre battuta di Berlusconi sulla abbronzatura di Obama, ha commentato che per lei è “meglio Berlusconi tutta la vita che la Bruni per una sera”, una specie di chiasmo zoppo, che avrebbe funzionato meglio a termini invertiti, ma denota, se non altro, la lealtà della nipote per eccellenza verso l'unico politico che la prende ancora sul serio. Altre manifestazioni di nazionalismo ferito non mi sembra ne siano state registrate e lo stesso presidente del consiglio, richiestone da un intervistatore, si è rifiutato di commentare l'episodio. Non possiamo, per una volta, che compiacercene.
    Certo, non siamo più ai tempi di Aristotele, che considerava la felicità come l'obiettivo della umana di esistenza, né a quelli di Thomas Jefferson, per cui quello della ricerca di quello stato era uno dei diritti inalienabili di ciascuno di noi. Oggigiorno quello di felicità è un concetto un po' troppo impegnativo e, salvo che nelle canzonette e nelle frasi fatte tipo “felice di fare la Sua conoscenza”, pochi si azzarderebbero a dichiararsi felici di essere o fare qualcosa. Al negativo, come s'è visto, ci si può sbilanciare un poco di più, ma solo in contesti di tipo comparativo e consolatorio e riferendosi a campi esperienziali ben delimitati. La Bruni, così, è felice di non essere italiana solo perché in quanto francese non si sente coinvolta da certe battute di Berlusconi e beata lei che se lo può permettere. Noi dobbiamo tenerci il Berlusca, le sue battute e la nostra nazionalità e non possiamo neanche lamentarcene troppo, se no ci accusano di esagerazione. In realtà, tra la felicità di essere qualcosa e la felicità di non esserlo esiste una strana, sottile asimmetria e le due espressioni, anche se la loro struttura formale sembra suggerirlo, non sono affatto l'una il contrario dell'altra.
    Così, a volerla dire proprio tutta, io non mi sento particolarmente felice di essere italiano, ma non mi sembra nemmeno di soffrirne troppo. Diciamo che la questione mi interessa assai poco, nel senso che tendo a rifiutare, per quanto possibile, questi tipi di appartenenza e che la tradizione in cui mi riconosco, a torto o a ragione, non se ne cura. Oggi, lo so, non è di moda dichiararsi cosmopoliti, la pretesa illuministica di riconoscersi in una ragione universale è fatta oggetto, per lo più, di derisione e compatimento e l'internazionalismo proletario è qualcosa che, a dir dei più, sta a mezzo tra l'illusione e la parolaccia, ma spero mi sia ancora consentito considerarli dei sistemi di valori, diciamo così, interessanti. Che l'unica forma di internazionalismo ammissibile sia quella designata dal termine “globalizzazione” mi è sempre sembrata una pretesa curiosa.
    È vero, piuttosto, che non sono particolarmente felice di vivere in Italia. Non tanto, però, perché vi governi Berlusconi, che, sì, è un po' di fastidio lo da, ma non che i Sarkozy, i Brown e le Merkel siano, tutto sommato, un gran che meglio. Il fatto è che tra le orribili cose che vedo allignare in questo paese – l'impunità dei potenti, il rifiuto dei diversi, l'ossequio all'altare, il disprezzo per la cultura, il disinteresse per i valori della consapevolezza e della decisione in comune – non ne vedo una sola che, onestamente, si possa mettere in conto al solo Berlusconi, o, se preferite, al suo governo e alla sua maggioranza. Quando gliene è stata data occasione gli altri (quegli “altri” cui pure mi sento costretto a fare riferimento) hanno fatto, se non peggio, altrettanto.
    Ecco: diciamo che sarei felice di vivere in un paese in cui la differenza tra
    destra e sinistra sia tale da permettere a tutti di schierarsi con la parte che vogliono senza riserve mentali. Un paese, cioè, che corrispondesse al modello classico dello stato democratico liberale, quello che tutti, ma proprio tutti, ormai, sostengono essere il proprio. Il fatto che una condizione così minimale finisca, oggi, per assumere le tinte della più sfrenata delle utopie, la dice lunga sulla sincerità di questo genere di affermazioni.