Ipotesi di terzo tipo

La caccia | Trasmessa il: 05/29/2005



Anni fa, quando frequentavo le scuole medie, si  poteva trovare nei chioschi e nelle tabaccherie una serie di cartoline intitolata “Se Milano avesse il mare”.  Erano delle vignette lucide in bianco e nero, come si usava allora, e raffiguravano, con una tecnica di fotomontaggio piuttosto rozza, delle improbabili scene di spiagge in piazza Duomo, scogliere davanti alla Stazione Centrale e attracchi di bastimenti al Cordusio.   Il risultato non poteva essere altro che grottesco, ma a qualcuno evidentemente piaceva, tanto è vero che se ne continuarono a vendere per un pezzo e ancor oggi c’è chi se le ricorda.
        Tra costoro deve annoverarsi qualcuno che ha un certo peso nel governo attuale della città.  Tanto è vero che dall’altro ieri, per la seconda stagione consecutiva, il mare a Milano c’è.   È bastato, per ottenerlo, spargere attorno all’Arco della Pace, in piazza Sempione, non so quante tonnellate di sabbia del Ticino, collocarvi due piscine e duecento sedie a sdraio, destinarne un settore a campo di beach soccer, beach volley, bocce e calciobalilla umano (qualsiasi cosa sia), arredare l’area residua con gazebo e “strutture a vela” capaci di accogliere bar, locale per idromassaggio, parrucchiere, lettini abbronzanti e quant’altro, compresi gli impianti necessari per navigare in Internet senza fili.  E poi rose, ulivi, bambù e palme, che l’anno scorso erano artificiali, ma forse questa estate saranno autentiche, sia pure in vaso.  Il mare in senso stretto, naturalmente, non c’è e a farne le veci non bastano le piscine (quella per adulti misura dieci metri per cinque e ai bambini, povere creature, ne tocca una di soli sei metri per tre), ma la spiaggia, in un certo senso, sì e l’anno scorso, in verità, i nostri concittadini hanno mostrato di gradire l’iniziativa, firmata dall’assessore ai Grandi Eventi del Comune, e sono accorsi a frotte in piazza Sempione, per un totale di ben trecentocinquantamila presenze.
        Può sembrar strano, ma è comprensibile.  I milanesi, notoriamente, sono di bocca buona o, per lo meno, hanno imparato a fare di necessità virtù.  In una città che da sempre si illude di porre rimedio alla propria vocazione autodistruttiva con un uso massiccio del surrogato e della falsificazione, in una città che si è saputa (o dovuta) accontentare del falso gotico del Duomo, del falso romanico di San Ambrogio del falso Rinascimento del Castello e del falso neoclassico della (nuova) Scala, un surrogato di spiaggia può avere il suo senso.   D’altronde, nel parco, a poche decine di metri da quelle strutture, hanno montato da poco la falsa fattoria, in cui i bambini – ci dicono – potranno scoprire come sono fatte davvero galline e caprette, due specie animali che, notoriamente, vivono nei parchi urbani, e poco più in là, in Piazza del Cannone, un falso villaggio di false casette ospita varie attività commerciali e di intrattenimento che, a quanto pare, non si potevano proprio sistemare altrove.  Questi e non altri, d’altronde, sono i grandi eventi che possiamo aspettarci dal comune.  Sarebbe futile lamentarsene e pretendere che, invece di una falsa spiaggia, l’amministrazione fornisca ai cittadini un vero sistema di attrezzature sportive, compreso un congruo numero di piscine all’aperto e di aree verdi: viviamo nell’età dell’apparenza e gli unici progetti che interessano agli amministratori sono, in perfetta consequenzialità, quelli che appaiono.
        Non è chiaro, tuttavia, quanto tutto ciò possa giovare al Parco Sempione, che è, lui sì, un parco vero, realizzato con ampiezza di vedute e gusto sicuro in un’epoca in cui alle necessità di fondo della vita cittadina si prestava evidentemente più attenzione di oggi, perché un polmone verde di 470 ettari non era niente male per la Milano di fine ‘800 e non è colpa di Emilio Alemagna, che lo ha progettato, se è restato praticamente l’unico in centro, nonostante il crescere della città.  Né quanto possa giovare all’Arco della Pace, insigne fabbrica neoclassica di Luigi Cagnola, nonché uno dei pochi monumenti non taroccati di cui la città possa vantarsi, già disturbato non poco dall’arredo urbano in cui lo si è voluto inserire, sconciato da una specie di ringhiera da ballatoio attorno alla sestiga del Sangiorgio e alle quattro Vittorie del Putti, e ridotto, oggi, a quinta decorativa di una ridicola attrezzatura pseudobalneare che, più che a una Disneyland in sedicesimo rischia di assomigliare (e l’anno scorso di fatto rassomigliava) a un piccolo carnaio.
        Eppure i milanesi, stando a quanto si legge, si direbbero anche troppo sensibili al problema del buon uso e della dignità dei loro pochi monumenti e dei loro pochissimi spazi verdi.  Pensate a tutto il bailamme che hanno fatto, appena un paio di settimane fa, sul problema dei picnic extracomunitari nel verde pubblico.  Il fatto che un certo numero di famiglie latinoamericane o d’altra origine avessero preso l’abitudine di riunirsi a convito la domenica sui prati del Sempione (ma anche su quelli di giardini più periferici, come il Forlanini, la Montagnetta, il Parco Lambro e simili) è stato additato, in molti articoli e servizi, in infinite lettere ai giornali e con altre prese di posizione, come uno scandalo, una intollerabile soperchieria, un atto di violenza morale verso chi in quegli spazi voleva semplicemente passare qualche ora in pace.  Non che nessuno ce l’avesse con gli ecuadoriani o i filippini in quanto tali, per carità, esattamente come nessuno ce l’ha con i cinesi di Paolo Sarpi e Bramante perché sono cinesi.  Era un problema di ordine, di pulizia e, soprattutto, di una dignità che troppe cartacce, troppe lattine di birra e troppi fumi di carne alla griglia riducevano a zero.  E in nome di questi valori l’amministrazione si è affrettata a intervenire a suon di provvedimenti coercitivi.
Oggi, la stessa amministrazione consente e organizza, in una zona al tempo stesso verde e monumentale, un’aggregazione che, quanto a capacità di recare molestia ai residenti, esibire volgarità di ogni tipo e far danno sul piano ambientale supera di gran lunga qualsiasi barbecue ispanico o cingalese.   Ma nessuno protesta, forse perché gli extracomunitari, essendo già piuttosto scurotti di loro, non hanno necessità di abbronzarsi e su quella finta spiaggia non porranno mai piede.
        Insomma, se Milano fosse una città seria, se non fosse ormai inquinata dal razzismo e dall’indifferenza edonista verso i problemi degli altri, simili contraddizioni  non sarebbero ammesse.   Ma anche questa, ahimè, è una proposizione assimilabile al “se Milano avesse il mare” di cui vi dicevo prima.   In latino, che è una lingua precisa, bisognerebbe esprimerla con un periodo ipotetico di terzo tipo.  Quello, se ricordate, che esprime l’assoluta impossibilità.

29.05.’05