Ha detto Giuliano Amato che i partiti
non si inventano. Una massima sacrosanta, a prima vista, ma anche
piuttosto ovvia. I partiti non si inventano perché, secondo la dottrina
politica classica, quella in cui siamo cresciuti voi e io, devono essere
portatori di interessi reali, radicati in ampi settori della società e
organizzati attorno a un progetto di ampio respiro. Anche se pronunciata
con le migliori intenzioni del mondo, quelle di raccomandare all’incazzatissimo
Prodi di andarci piano con l’idea di una lista personale che ci sta ci
sta e gli altri si grattino, l’affermazione ricorda un po’ troppo la
scoperta dell’acqua calda per onorare davvero la sottigliezza che all’ex
Presidente del Consiglio normalmente si accredita.
D’altra
parte… d’altra parte, nel sistema politico non più tanto classico
in cui ci tocca di muoverci, l’affermazione rischia di risultare clamorosamente
falsa. Come ha dimostrato Berlusconi, che ne ha creato uno dal nulla
undici anni fa e sta cercando di fare altrettanto oggi, i partiti si possono
benissimo inventare. Basta disporre del contante necessario e del
potere mediatico relativo. Ai vasti settori della cittadinanza richiesti
dalla teoria si potrà far credere che i loro interessi verranno tutelati
davvero da una struttura creata per tutelare gli interessi di un altro
e l’invenzione, benché mendace, per qualche tempo riuscirà a reggersi.
Il tempo, per lo meno, di cui l’inventore ha bisogno per sistemare
i suoi affari personali e ridurre al lumicino la concorrenza. Poi
si vedrà.
Non
solo. Si è visto che con un po’ di buona volontà e un minimo di
fortuna ci si può inventare, se non un partito, almeno una entità subpartitica
(o sovrapartitica, fa lo stesso), anche se non si ha il becco di
un quattrino e se i propri progetti non sono altrettanto mirati. Pensate
all’Ulivo. Anche l’Ulivo, questo strano oggetto che da quasi dieci
anni si aggira per l’Italia senza che nessuno sappia veramente di
che cosa si tratti – progetto, alleanza, coalizione o che altro – è
frutto di un’invenzione. Di un’invenzione, anzi, particolarmente
felice, visto la perentorietà con cui ha fatto trangugiare a una bella
fetta di elettorato la minestra, più e più volte riscaldata, della consociazione
asimmetrica tra il Partito comunista e la Democrazia cristiana che aveva
caratterizzato gli ultimi anni della prima Repubblica. La capacità
inventiva, in questo caso, è stata quella di proporre questo nipotino delle
“larghe intese” e del “compromesso storico” sotto una veste un
po’ vaga ma, indubbiamente, altra. Chiunque ci abbia pensato, è
stato un capolavoro e infatti l’idea finora ha funzionato, nonostante
gli scossoni cui i suoi azionisti più riluttanti lo hanno ripetutamente
sottoposto. Che l’ulivo (con la minuscola) si debba scuotere per
raccoglierne i frutti è, d’altronde, un antico principio dell’agricoltura
mediterranea.
Non
sarà un caso, dunque, se oggi le due contrapposte invenzioni della vita
politica nazionale sono andate in crisi contemporaneamente. E anche
se, da un lato, Berlusconi pensa di avere abbastanza quattrini e potere
per ripetere bel bello l’operazione del 1994 e, dall’altro, i leader
ulivisti confidano a oltranza nella propria capacità di metterci una pezza,
può darsi benissimo che la crisi sia peggiore di quanto si creda.
Vedete,
tanto per limitarci ai problemi nostri, io mi sono sinceramente divertito,
negli ultimi giorni, a sentire, nei vari microfoni aperti, gli ascoltatori
di Radio Popolare inveire contro Rutelli, dandogli del venduto, del sicofante,
dell’incompetente, del vanesio e avanti ad libitum. Per quel che
mi riguarda, sottoscrivo di cuore. Ma non so quanto la crisi dell’Ulivo
possa essere spiegata (e risolta) addebitandola alla malafede o alla incompetenza
di questo o di quello. Rutelli sarà stato un po’ più spregiudicato
della media nel suo percorso dalla segreteria del Partito radicale alla
presidenza di quello postdemocristiano, ma è un personaggio affatto omogeneo
all’establishment ulivista, di cui fa parte da sempre e di cui condivide
logiche e motivazioni. L’Ulivo, per dirla brutalmente, funzionava
abbastanza bene finché sembrava destinato alla opposizione perpetua e,
legittimo erede del compromesso storico, si proponeva il nobile compito
di salvare la democrazia. Ora che, dopo il risultato delle regionali,
si respira una certa qual aria di governo, il problema è quello di chi
concretamente gestirà l’auspicata vittoria, il che richiede che da una
realtà aperta e interpretabile da ciascuno dei partner a modo proprio si
passi a una struttura in cui i rapporti reciproci siano definiti con la
massima precisione. Che è, lo ammetterete, un bel problema e non
coinvolge soltanto le responsabilità dell’ex sindaco di Roma o le speranze
di quello attuale. Speriamo che qualcuno si decida a riconoscerlo
e ad affrontarlo esplicitamente per quello che è, se no è vero che i partiti
non si inventano, ma qualcosa saremo costretti a inventarci lo stesso.
29.05.’05