Alle tante conseguenze nefaste di quello
che sta succedendo oggi in Palestina, va aggiunto, e non se ne sentiva
proprio il bisogno, il rischio di un ritorno di fiamma dell’antisemitismo
in Europa. E non importa se si tratta di un’eventualità, tutto sommato,
remota, legata a pochi episodi isolati e ingigantita ad arte, se mai, da
quanti, come i sostenitori, occulti o palesi, dell’attuale governo israeliano,
sono avvezzi a sfruttare spregiudicatamente i sensi di colpa che la nostra
coscienza collettiva prova, non senza motivo, nei riguardi dell’ebraismo.
La storia ci insegna che l’antisemitismo è una di quelle infezioni
che dilagano anche sul terreno che più ne sembrava immune e quando cominciano
i roghi delle sinagoghe, come in questi giorni in Francia e nel Belgio,
vuol dire che il livello di guardia è stato, non che raggiunto, largamente
superato.
Che
quel rischio sia reale, d’altronde, lo dimostra il fatto stesso che tanti
tra noi lo avvertono nella propria coscienza. Siamo tutti convinti,
in astratto, che simpatizzare per la causa palestinese e detestare di tutto
cuore il governo Sharon è un’opzione politica affatto legittima, condivisa
persino da un certo numero (piccolo, ma non irrilevante) di cittadini
ebrei di Israele, ma di fronte alle reazioni che suscitano, oggi, l’arroganza
e la prepotenza di quel governo, che reagisce al terrorismo con la tecnica
della rappresaglia sulla popolazione civile, che non sarà la stessa cosa,
ma non è neanche quella gran differenza, e per di più ne approfitta per
cambiare unilateralmente le carte in tavola, trattati o non trattati, in
molti di noi nasce una specie di paura improvvisa. Temiamo che la
nostra reazione sia viziata da una forma di antisemitismo latente. Ci
chiediamo se il fastidio che proviamo di fronte a uno stato sul cui rispetto
per i diritti umani e sulla cui sincerità democratica ci sembra ci sia
molto da ridire non possa essere, per avventura, una subdola manifestazione
di quell’antico, esecrabile, vizio. È un rovello che oggi tormenta
una quantità di persone per bene, per la soddisfazione dei tanti tromboni
che problemi del genere non se ne pongono, ma sono sempre pronti a denunciare
le opinioni e le iniziative degli altri come esempi di “pacifismo a senso
unico”.
I
problemi di coscienza, naturalmente, a senso unico non sono mai. E
se è sempre giusto cercare di fare un po’ di consapevolezza dentro di
sé, specialmente se si è cresciuti in un paese come il nostro, afflitto
per secoli dall’egemonia culturale della chiesa cattolica, che in tema
di rapporti con l’ebraismo ha le sue belle responsabilità, bisogna anche
sforzarsi di reagire a quelli che finiscono per diventare dei veri e propri
ricatti ideologici. In fondo le ideologie, quella dell’antisemitismo
compresa, sono state elaborate più per occultare i termini dei problemi
che per chiarirli. Provate a rileggere nella Storia notturna di Carlo
Ginzburg il capitolo su come fu inventata, nella Francia del XIV secolo,
la cosiddetta “congiura dei lebbrosi”, per definire e giustificare un
progetto persecutorio che sarebbe stato ripetuto più volte ai danni di
molti altri soggetti, a partire – appunto – dagli ebrei. Quando
si è decisi a fare qualcosa, non ci vuol molto per trovare delle giustificazioni,
ma quelle giustificazioni non si identificano di necessità con le motivazioni
effettive. E oggi, di fronte a quegli episodi sconvolgenti e vergognosi,
il dovere di tutti è quello di cercare di capirne, appunto, i motivi, di
chiedersi per che cosa esattamente si sta combattendo da una parte e dall’altra.
Io,
personalmente, ho l’impressione che in quella tragedia l’antisemitismo
non c’entri davvero un gran che. In Palestina non è in corso né
una guerra di razza, per quel che può significare in quel contesto il termine
razza, né una guerra di “civiltà” (con le virgolette), né, tantomeno,
una guerra di religione. Proviamo a lasciare perdere, per una volta,
le rivendicazioni di valore degli uni e degli altri, a mettere tra parentesi
l’eterno dibattito sulle opposte ragioni “storiche” delle due parti.
Tanto sappiamo benissimo tutti che entrambi, ormai, hanno il diritto
di vivere su quella terra, anche gli israeliani, che, quali che fossero
le loro motivazioni, ci sono giunti come coloni e l’hanno trasformata
con il loro lavoro. Ma questo non li autorizza, naturalmente, a creare
uno stato fondato in gran parte sulla discriminazione, a negare i diritti
degli altri, a riservarsi con la forza la parte migliore della terra e
praticamente tutto il potere. Perché è sulla terra, sul potere e
sui diritti, e non su altro, che laggiù ci si scanna.
È
un conflitto, quello che contrappone israeliani e palestinesi (che non
è la stessa cosa, vale la pena di continuare a ripeterlo, che dire “arabi
e ebrei”), molto laico e, forse per questo, molto brutale. Com’è
molto laica, e anche abbastanza brutale, l’unica soluzione possibile:
che in quelle poche miglia di territorio gli uni e gli altri imparino,
prima o poi, a convivere da bravi fratelli, su un piede di parità. E
chi non vuole rassegnarsi a questa difficile, ma ragionevole, prospettiva,
che può sembrare assurda come tutte le utopie, ma come capita spesso alle
utopie rappresenta l’unica via percorribile, non ha alcun diritto di protestare
se viene giudicato per le sue azioni.
07.04.’02