In questi giorni incombono sul traffico
pedonale e motorizzato, qui a Milano, quattro megamanifesti, quelli che
ricoprono interamente l’ex casello daziario in restauro di Porta Garibaldi,
in piazza 25 aprile, di fronte ai quali non riesco proprio a passare senza
un brivido di repulsione. Sono stati concepiti, a quanto sembra,
per far pubblicità a una nuova rete TV, non so bene se satellitare, via
cavo o come altro tecnologicamente caratterizzata, ma dedita, comunque,
alla trasmissione esclusiva di film di successo, ed esibiscono all’uopo
una grande scritta che assicura, a caratteri giganteschi, che su quella
rete “il grande cinema con finisce MAI”. Niente di sofisticato,
dunque, né particolarmente degno di nota, se non fosse che il concetto
viene illustrato con l’immagine di tre volti femminili e uno maschile,
con le facce di quattro persone apparentemente normali, un ragazzotto e
tre signorine come se ne vedono tante in giro, che ti fissano con gli occhi
spalancati come piattini di caffè, anzi, per aiutarli a tenerli ben aperti,
ed evitare – suppongo – che li chiudano anzitempo, qualcuno ha pensato
bene di fissargli le palpebre superiori e inferiori alla pelle circostante
mediante sei robusti cerotti.
Buon
dio, dice il passante sensibile, che tremenda tortura! Chissà che
cosa si deve provare ad avere gli occhi tenuti sempre aperti da sei pezzi
di cerotto e le mani, presumibilmente, ben legate dietro la schiena, perché
se non lo fossero la prima iniziativa che prenderebbe chiunque sarebbe
quella di strapparsi da dosso quelle malefiche strisce, e dover fissare
uno schermo televisivo sul quale, per tutto il santo giorno, si succede
un film dopo l’altro. Di una pratica tanto crudele io non avevo
proprio mai sentito parlare. Mi sembra più efferata della goccia
cinese, del toro di Falaride, della vergine di Norimberga e di qualsiasi
altro pio trattamento caro all’Inquisizione. Siamo, oserei dire,
quasi al livello della deprivazione sensoriale. Supponendo che i
cerotti vengano applicati verso le nove del mattino, presumo che i primi
segni di insania mentale possano sopravvenire più o meno a metà pomeriggio
e che nell’arco delle ventiquattr’ore si ottenga senza problemi la completa
distruzione psichica dell’individuo.
Dite
che esagero? Può darsi. Forse saprete, dalle polemiche in cui
sono stato coinvolto, un mesetto fa, sul museo della Pusterla di Sant’Ambrogio,
che in fatto di torture sono molto, ma molto impressionabile. Ma
anche a prescindere da questo aspetto, pensate quale terribile cosa sarebbe
non potere mai chiudere gli occhi. Dover guardare, senza scampo né
remissione, tutto quello che gli altri decidono di farti guardare o, semplicemente,
tutto quello che ti succede attorno. Nella vita, si sa, è sempre
meglio procedere a occhi aperti, ma ciò non esclude che ogni tanto si senta
il bisogno di chiuderli. Non soltanto per sognare, o per vedere con
la fantasia quello che vorresti vedere e non vedi mai, come suggeriva una
canzone che mi piaceva quand’ero ragazzo, ma semplicemente per riflettere.
Per concedersi quella pausa di raccoglimento di cui non si può fare
a meno se si vuole esprimere, su quel che si vede succedere, un giudizio
qualsiasi.
Quell’immagine
pubblicitaria, naturalmente, non ha pretese teoriche. Ma, com’è
e come non è, esprime con terribile (e forse involontaria) icasticità quella
che, dal punto di vista dei suoi committenti, è evidentemente la condizione
ideale del pubblico cui si rivolge. Un pubblico composto esclusivamente
da ricettori passivi, che non chiudono mai gli occhi e non usano mai le
mani, nemmeno per premere il telecomando, e quindi si sorbiscono tutto
quello che si propone loro senza prendersi il disturbo di giudicarlo, tanto
i giudizi gli verranno forniti già confezionati da chi di dovere.
Un pubblico di zombie sui quali non è stato necessario operare alcun sortilegio
per renderli tali. Un pubblico di soggetti integrati e acquiescenti,
per i quali l’idea di tenerti aperti gli occhi con sei pezzi di cerotto
è soltanto un’ipotesi spiritosa, visto che loro, tanto, gli occhi non
li chiuderebbero mai lo stesso.
Speriamo
solo che chi ha ideato quelle immagini non sapesse quel che faceva. Anche
se questo, naturalmente, non è un buon motivo per perdonarlo.
10.12.’00