In nome del popolo

La caccia | Trasmessa il: 10/11/2009


    Voi sicuramente sì, ma non so se tutti abbiano compreso davvero cosa era in ballo con il chiacchieratissimo giudizio della Corte costituzionale di mercoledì scorso. Non certo, come si vociferava, la possibilità di mettere Berlusconi sotto processo e magari di condannarlo a una qualche pena esemplare. Tipi come lui il modo di non farsi processare lo trovano sempre e, quanto agli esiti, sarà anche vero che i giudici in Italia sono tutti comunisti, ma sulla possibilità di trovarne uno disposto a mandare in galera l'uomo più potente (e più ricco) del paese, consentitemi di nutrire qualche igienico dubbio. Né spero abbiate prestato fede all'interpretazione che il diretto interessato non si stanca di diffondere, quella per cui i suoi nemici politici lo fanno oggetto di ogni sorta di attacchi giudiziari e pubblicistici pretestuosi, con il fine neanche tanto occulto di costringerlo a mollare il governo, nonostante il mandato trionfalmente ricevuto e un sostegno popolare che non sembra venuto a meno. Sa benissimo, il nostro, che se decidesse di lasciare il suo posto farebbe forse felice Di Pietro, ma getterebbe tutti gli altri leader del centrosinistra nella più nera desolazione, non avendo nessuno di loro mai soltanto riflettuto sul come e con chi, eventualmente, sostituirlo. Loro, di certo, non ne sarebbero assolutamente capaci. Da questo punto di vista, San Silvio da Arcore (per chiamarlo come si è spiritosamente autodefinito) è in una botte di ferro.
    No. La ragione del contendere era molto più seria e, in un certo senso, molto più drammatica. Risulta chiarissima dalle parole (inconsulte) degli onorevoli avvocati presidenziali – quello per cui la legge è uguale per tutti, ma diverso può essere il modo di applicarla e quell'altro secondo il quale il suo assistito, logica o non logica, va considerato un primus super pares – e da quelle che sostenitori, ammiratori e zeloti vari non si sono risparmiate dopo la pronuncia. E ancora più limpida risulta dall'argomentazione, ripetuta da Berlusconi stesso fino alla noia, per cui, essendo la sua carica l'unica in tutto l'organigramma dello stato frutto di una elezione popolare diretta, gli toccherebbero, rispetto a chiunque altro, riguardi particolari.
    Il tentativo, insomma, era quello di far ratificare de jure alla suprema corte quello che, al massimo, è un malaugurato stato di fatto cui tutte le persone ragionevoli dovrebbero sforzarsi di porre rimedio. Perché il tipo non è stato eletto direttamente dal popolo, non avendo nessuno deliberato la trasformazione dell'Italia in repubblica presidenziale, il suo nome era presente sulle schede solo grazie a un escamotage grafico che ci è capitato più volte di denunciare ed è soggetto anche lui, come tutti i suoi predecessori, alle regole del sistema parlamentare. Che non sarà il migliore in assoluto, né di necessità quello più adatto al paese, ma resta quello in vigore, almeno finché non sarà stata modificato con le debite procedure. Tentare di stravolgerlo di fatto, con il voto di una corte o il proclama di un leader, significa voler cambiare sottobanco la Costituzione, che è poi quello che si chiama, tecnicamente, un colpo di stato.
    Non pensiate, vi prego, che esageri, per eccesso di formalismo o gusto del paradosso. Il fatto è che Berlusconi sa benissimo che nessuno, stanti gli attuali rapporti elettorali e di forza, ha la minima intenzione di cacciarlo dal governo, ma che quello che gli si chiede – e non è certo troppo – è di attenersi alle regole secondo le quali il governo è strutturato, al sistema di pesi, contrappesi, garanzie e guarentigie di cui si sostanza, da un paio di secoli e mezzo, la democrazia. Di rispettare queste regole lui non ha la minima intenzione. Lui vuol fare quello che gli pare, nel pubblico come nel privato, e considera un'inaccettabile intromissione qualsiasi richiamo in senso contrario. Interpreta il successo elettorale come un mandato in bianco non revocabile e la democrazia come una semplice tecnica di investitura. Il che non può dirsi presidenzialismo, che è un sistema che prevede garanzie e contrappesi ancora più forti, né semplice populismo, che è un'ideologia – nonostante tutto – rispettabile, ma una forma moderna di cesarismo, almeno nel senso napoleonico del termine. Mercoledì scorso, insomma, avrebbe potuto essere il suo personale 18 brumaio. Certo, pensare al Berlusca nei panni di Caio Giulio o di Luigi Napoleone fa un po' ridere ma San Silvio da Arcore, come s'è visto, non ha il minimo senso dell'ironia.

    11.10.'09