Impronte

La caccia | Trasmessa il: 11/26/2000



Fu nel 1823, come forse ricorderete, che Jan Evangelist Purkinje, naturalista e fisiologo boemo, distinguendo e descrivendo, in una sua memoria De examine physiologico organi visus et systematis cutanei nove diversi modelli di linee papillari, ebbe a osservare per la prima volta come non esistessero due individui dotati di impronte digitali perfettamente identiche.  La scoperta, come si sa, avrebbe avuto delle importanti applicazioni pratiche, ma non sarebbe corretto attribuirne al Purkinje né il merito, né la responsabilità.  A lui, del problema dell’identificazione dell’individuo interessavano soprattutto le implicazioni filosofiche, che, infatti, vengono discusse in un capitolo apposito, De cognitione organismi individualis in genere.  Nella singolarità di quei tracciati, nel fatto che in ogni individuo fosse riscontrabile una peculiarità tutta sua perfino in un aspetto fisico così poco evidente, quell’autore vedeva una conferma della definizione leibniziana dell’uomo come “ens omnimodo determinatum”.  Abbandonando lo studio delle linee della mano alla “vana scienza” dei chiromanti, egli insegnava a cercare nei solchi dei polpastrelli il contrassegno riposto dell’individualità.
        Qualche decennio più tardi, si sarebbe prefisso un analogo fine, in via affatto indipendente e da tutt’altro punto di vista, Sir William Herschel, amministratore britannico del distretto di Hooghly, in Bengala.  Costui, come suoi parecchi colleghi, era ostacolato nei suoi compiti da un problema piuttosto grave: non riusciva a distinguere i suoi amministrati l’uno dall’altro.  I bengalesi, com’era e come non era, gli sembravano tutti uguali, né erano soliti portare con sé affidabili documenti di identità.  Da questa imbarazzante situazione vide una via di uscita riflettendo, attorno al 1860, su un’usanza diffusa nel paese: quella di imprimere sui documenti, a mo’ di firma, l’impronta di un polpastrello intinto nella pece.   Ebbe dunque l’idea di servirsi di questo metodo indigeno per identificare i sudditi affidati alle sue cure: sarebbe bastato raccoglierne, classificarne e conservarne le impronte, per garantirne, previa una semplice operazione di confronto, la riconoscibilità.  Di fatto, dopo vent’anni di esperimenti, poté annunciare, in un articolo su Nature, che a Hooghly, grazie al sistema delle impronte digitali, nessun infido bengalese poteva più farsi passare per qualcun altro.  Il metodo parve subito tanto efficace che la polizia inglese decise di adottarlo per l’identificazione dei sospetti e dei criminali, al posto del macchinoso sistemo di misurazioni antropometriche messo a punto in Francia, a partire dal 1879, da Alphonse Bertillon.   Le altre polizie si adeguarono in fretta e in pochissimi anni il concetto di “impronta digitale” sarebbe stato abbastanza noto al gran pubblico da poter essere impiegato per sciogliere la peripezia in un fortunato romanzo di Mark Twain, Wilson lo zuccone (Pudd’nhead Wilson, 1894).
        Trarre una morale da questa storia, i cui particolari potrete ritrovare, se vi interessano, nel vecchio saggio di Carlo Ginzburg su “Spie – Radici di un paradigma indiziario”, pubblicato nel 1979 in un Paperback Einaudi collettivo dedicato, già allora, alla Crisi della ragione, non è troppo difficile.   Il problema, in sé piuttosto astratto, dell’identificabilità di ogni essere umano, acquisisce una sua corposa concretezza quando si tratta di identificare chi, per motivi suoi, preferirebbe non essere identificato affatto.  Quando, cioè, da semplice questione teorica diventa un fatto di controllo e di repressione.   È ovvio che la polizia abbia interesse a riconoscere i criminali mentre chi è dedito ad attività extralegali preferisca restare il più possibile ignoto e cerchi, se del caso, di farsi passare per un altro.  Ma non può: quegli impercettibili segni cutanei lo inchiodano alla sua identità e ai suoi precedenti.
 Altrettanto ovvio, naturalmente, era il fatto che i sudditi bengalesi  non fossero proprio entusiasti all’idea di essere individuati dall’amministrazione coloniale, ma questo è un altro discorso.  Di fatto, nonostante le sue origini, diciamo così, amministrative, lo sviluppo del metodo dattiloscopico avrebbe riguardato soprattutto l’ambito poliziesco e giudiziario.  L’avvocato Wilson, l’eroe di Mark Twain, se ne serviva, come avrebbero fatto innumerevoli altri protagonisti di gialli dopo di lui, per individuare l’autore di un efferato omicidio e in seguito la nozione stessa di “impronta digitale” sarebbe stata collegata, nell’immaginario collettivo, con la dialettica tra criminali e forze dell’ordine.  L’impronta digitale sostituisce con profitto la marchiatura a fuoco – che in Francia, parrà strano, era stata impiegata fino al 1832 – ed è praticamente impossibile da falsificare (anche se il Fantômas di Allain e Souvestre avrebbe ottenuto dei discreti risultati facendosi confezionare, allo scopo, dei guanti in pelle di mano di cadavere).  Di fronte  a tanti vantaggi pratici, poco importa che il suo uso esprima, sotto sotto, un marcato pessimismo sociale, perché è ovvio che si prendono le impronte di chi è condannato per qualche reato, o viene fermato in circostanze sospette o suscita in qualche altro modo l’interesse degli inquirenti, al fine dichiarato di poterlo riconoscere quando, inevitabilmente, ricadrà nel delitto.
Così, quando un membro del governo italiano, un non meglio noto sottosegretario Brutti, propone di raccogliere e classificare le impronte dei cittadini extracomunitari presenti, a qualsiasi titolo, nel nostro paese, non inventa, a ben vedere, nulla di nuovo.   Si dimostra soltanto il ragionevole erede del razzismo degli Herschel e della sistematicità poliziesca dei Bertillon.   Propone, per motivi di ordine pubblico, una misura amministrativa che garantisce l’identificazione dei membri di una comunità di diversi, perché li considera, in quanto tali, difficilmente identificabili e comunque propensi a schivare l’identificazione e non si preoccupa affatto delle implicazioni criminalizzanti di una simile proposta.  In fondo, dovrebbe essere ovvio che, se a quella pratica vengono sottoposti di regola quanti hanno a che fare, come si dice, con la “giustizia”, estenderla ad altri significa applicare anche a loro la stessa, infausta categoria.  Una cosa che un membro del governo italiano, per di più magistrato di professione, non dovrebbe proprio fare, perché in Italia vige, almeno per ora, la presunzione d’innocenza e considerare qualcuno, in sé o in quanto membro di una comunità, come un criminale in potenza, non sarà esattamente una presunzione di colpevolezza, ma ci va molto vicino.  Quando poi la comunità in questione è definita su basi etniche, si è così vicini al razzismo che non vale più neanche la pena di discutere.  Se ne è accorto persino un collega di governo del sullodato Brutti, il ministro Bassanini, che ha fatto una controproposta geniale nella sua inanità: allora schediamo tutti, italiani compresi.  La tecnologia moderna lo permette, i dati potrebbero essere immagazzinati in forma elettronica nella banda magnetica delle nuove carte d’identità (che entreranno in vigore, come apprendo, il 23 dicembre, e per fortuna che la mia scade cinque giorni prima, il che mi dà tempo di richiederne una tradizionale e tra cinque anni vedremo) e nulla impedirebbe di sottoporre tutta la popolazione residente a questa particolarissima forma di censimento, realizzando, a cinquantadue anni di distanza dal 1984 di George Orwell un sogno che il Grande Fratello, quello vero, non avrebbe mai osato permettersi.
In attesa di questi interessanti sviluppi, sul piatto c’è la proposta di schedare, per ora, i lavoratori ospiti.   Molti hanno protestato, compreso parecchi ascoltatori di questa radio, in una delle trasmissioni mattutine di questa settimana, ma personalmente, temo che farà strada.  Perché non è vero che chi la porta avanti non si preoccupa, come dicevamo prima, dei rischi di criminalizzazione: si tratta di una proposta espressamente criminalizzante, elaborata proprio per inseguire, in una corsa disperata alla ricerca di un consenso qualsiasi che ormai travolge ogni dignità e ogni consapevolezza ideologica, le ossessioni razziste e xenofobe di chi si sforza di allontanare da sé e di riversare su qualcun altro le responsabilità dello sfascio sociale dei nostro paese.  Di chi crede che se nella patria di Cosa Nostra c’è della criminalità, vuol dire che l’ha importata qualcuno da fuori.  Qualcuno, guarda caso, un po’ scuro di pelle e siccome i neri, come faceva notare sir William Herschel, si somigliano tutti tra loro, bisogna proprio prendergli le impronte digitali.   Nulla di più naturale.  Che l’idea non alligni soltanto presso la sezione leghista di Taroccate di Sotto o in un convegno di Forza Nuova, ma nel governo dell’Ulivo è soltanto un segno di quanto siamo caduti in basso (C.O.).

26.11.’00