Fu nel 1823, come forse ricorderete,
che Jan Evangelist Purkinje, naturalista e fisiologo boemo, distinguendo
e descrivendo, in una sua memoria De examine physiologico organi visus
et systematis cutanei nove diversi modelli di linee papillari, ebbe a osservare
per la prima volta come non esistessero due individui dotati di impronte
digitali perfettamente identiche. La scoperta, come si sa, avrebbe
avuto delle importanti applicazioni pratiche, ma non sarebbe corretto attribuirne
al Purkinje né il merito, né la responsabilità. A lui, del problema
dell’identificazione dell’individuo interessavano soprattutto le implicazioni
filosofiche, che, infatti, vengono discusse in un capitolo apposito, De
cognitione organismi individualis in genere. Nella singolarità di
quei tracciati, nel fatto che in ogni individuo fosse riscontrabile una
peculiarità tutta sua perfino in un aspetto fisico così poco evidente,
quell’autore vedeva una conferma della definizione leibniziana dell’uomo
come “ens omnimodo determinatum”. Abbandonando lo studio delle
linee della mano alla “vana scienza” dei chiromanti, egli insegnava a
cercare nei solchi dei polpastrelli il contrassegno riposto dell’individualità.
Qualche
decennio più tardi, si sarebbe prefisso un analogo fine, in via affatto
indipendente e da tutt’altro punto di vista, Sir William Herschel, amministratore
britannico del distretto di Hooghly, in Bengala. Costui, come suoi
parecchi colleghi, era ostacolato nei suoi compiti da un problema piuttosto
grave: non riusciva a distinguere i suoi amministrati l’uno dall’altro.
I bengalesi, com’era e come non era, gli sembravano tutti uguali,
né erano soliti portare con sé affidabili documenti di identità. Da
questa imbarazzante situazione vide una via di uscita riflettendo, attorno
al 1860, su un’usanza diffusa nel paese: quella di imprimere sui documenti,
a mo’ di firma, l’impronta di un polpastrello intinto nella pece.
Ebbe dunque l’idea di servirsi di questo metodo indigeno per identificare
i sudditi affidati alle sue cure: sarebbe bastato raccoglierne, classificarne
e conservarne le impronte, per garantirne, previa una semplice operazione
di confronto, la riconoscibilità. Di fatto, dopo vent’anni di esperimenti,
poté annunciare, in un articolo su Nature, che a Hooghly, grazie al sistema
delle impronte digitali, nessun infido bengalese poteva più farsi passare
per qualcun altro. Il metodo parve subito tanto efficace che la polizia
inglese decise di adottarlo per l’identificazione dei sospetti e dei criminali,
al posto del macchinoso sistemo di misurazioni antropometriche messo a
punto in Francia, a partire dal 1879, da Alphonse Bertillon. Le
altre polizie si adeguarono in fretta e in pochissimi anni il concetto
di “impronta digitale” sarebbe stato abbastanza noto al gran pubblico
da poter essere impiegato per sciogliere la peripezia in un fortunato romanzo
di Mark Twain, Wilson lo zuccone (Pudd’nhead Wilson, 1894).
Trarre
una morale da questa storia, i cui particolari potrete ritrovare, se vi
interessano, nel vecchio saggio di Carlo Ginzburg su “Spie – Radici di
un paradigma indiziario”, pubblicato nel 1979 in un Paperback Einaudi
collettivo dedicato, già allora, alla Crisi della ragione, non è troppo
difficile. Il problema, in sé piuttosto astratto, dell’identificabilità
di ogni essere umano, acquisisce una sua corposa concretezza quando si
tratta di identificare chi, per motivi suoi, preferirebbe non essere identificato
affatto. Quando, cioè, da semplice questione teorica diventa un fatto
di controllo e di repressione. È ovvio che la polizia abbia interesse
a riconoscere i criminali mentre chi è dedito ad attività extralegali preferisca
restare il più possibile ignoto e cerchi, se del caso, di farsi passare
per un altro. Ma non può: quegli impercettibili segni cutanei lo
inchiodano alla sua identità e ai suoi precedenti.
Altrettanto ovvio, naturalmente,
era il fatto che i sudditi bengalesi non fossero proprio entusiasti
all’idea di essere individuati dall’amministrazione coloniale, ma questo
è un altro discorso. Di fatto, nonostante le sue origini, diciamo
così, amministrative, lo sviluppo del metodo dattiloscopico avrebbe riguardato
soprattutto l’ambito poliziesco e giudiziario. L’avvocato Wilson,
l’eroe di Mark Twain, se ne serviva, come avrebbero fatto innumerevoli
altri protagonisti di gialli dopo di lui, per individuare l’autore di
un efferato omicidio e in seguito la nozione stessa di “impronta digitale”
sarebbe stata collegata, nell’immaginario collettivo, con la dialettica
tra criminali e forze dell’ordine. L’impronta digitale sostituisce
con profitto la marchiatura a fuoco – che in Francia, parrà strano, era
stata impiegata fino al 1832 – ed è praticamente impossibile da falsificare
(anche se il Fantômas di Allain e Souvestre avrebbe ottenuto dei discreti
risultati facendosi confezionare, allo scopo, dei guanti in pelle di mano
di cadavere). Di fronte a tanti vantaggi pratici, poco importa
che il suo uso esprima, sotto sotto, un marcato pessimismo sociale, perché
è ovvio che si prendono le impronte di chi è condannato per qualche reato,
o viene fermato in circostanze sospette o suscita in qualche altro modo
l’interesse degli inquirenti, al fine dichiarato di poterlo riconoscere
quando, inevitabilmente, ricadrà nel delitto.
Così, quando un membro del governo italiano,
un non meglio noto sottosegretario Brutti, propone di raccogliere e classificare
le impronte dei cittadini extracomunitari presenti, a qualsiasi titolo,
nel nostro paese, non inventa, a ben vedere, nulla di nuovo. Si
dimostra soltanto il ragionevole erede del razzismo degli Herschel e della
sistematicità poliziesca dei Bertillon. Propone, per motivi di ordine
pubblico, una misura amministrativa che garantisce l’identificazione dei
membri di una comunità di diversi, perché li considera, in quanto tali,
difficilmente identificabili e comunque propensi a schivare l’identificazione
e non si preoccupa affatto delle implicazioni criminalizzanti di una simile
proposta. In fondo, dovrebbe essere ovvio che, se a quella pratica
vengono sottoposti di regola quanti hanno a che fare, come si dice, con
la “giustizia”, estenderla ad altri significa applicare anche a loro
la stessa, infausta categoria. Una cosa che un membro del governo
italiano, per di più magistrato di professione, non dovrebbe proprio fare,
perché in Italia vige, almeno per ora, la presunzione d’innocenza e considerare
qualcuno, in sé o in quanto membro di una comunità, come un criminale in
potenza, non sarà esattamente una presunzione di colpevolezza, ma ci va
molto vicino. Quando poi la comunità in questione è definita su basi
etniche, si è così vicini al razzismo che non vale più neanche la pena
di discutere. Se ne è accorto persino un collega di governo del sullodato
Brutti, il ministro Bassanini, che ha fatto una controproposta geniale
nella sua inanità: allora schediamo tutti, italiani compresi. La
tecnologia moderna lo permette, i dati potrebbero essere immagazzinati
in forma elettronica nella banda magnetica delle nuove carte d’identità
(che entreranno in vigore, come apprendo, il 23 dicembre, e per fortuna
che la mia scade cinque giorni prima, il che mi dà tempo di richiederne
una tradizionale e tra cinque anni vedremo) e nulla impedirebbe di sottoporre
tutta la popolazione residente a questa particolarissima forma di censimento,
realizzando, a cinquantadue anni di distanza dal 1984 di George Orwell
un sogno che il Grande Fratello, quello vero, non avrebbe mai osato permettersi.
In attesa di questi interessanti sviluppi,
sul piatto c’è la proposta di schedare, per ora, i lavoratori ospiti.
Molti hanno protestato, compreso parecchi ascoltatori di questa
radio, in una delle trasmissioni mattutine di questa settimana, ma personalmente,
temo che farà strada. Perché non è vero che chi la porta avanti non
si preoccupa, come dicevamo prima, dei rischi di criminalizzazione: si
tratta di una proposta espressamente criminalizzante, elaborata proprio
per inseguire, in una corsa disperata alla ricerca di un consenso qualsiasi
che ormai travolge ogni dignità e ogni consapevolezza ideologica, le ossessioni
razziste e xenofobe di chi si sforza di allontanare da sé e di riversare
su qualcun altro le responsabilità dello sfascio sociale dei nostro paese.
Di chi crede che se nella patria di Cosa Nostra c’è della criminalità,
vuol dire che l’ha importata qualcuno da fuori. Qualcuno, guarda
caso, un po’ scuro di pelle e siccome i neri, come faceva notare sir William
Herschel, si somigliano tutti tra loro, bisogna proprio prendergli le impronte
digitali. Nulla di più naturale. Che l’idea non alligni soltanto
presso la sezione leghista di Taroccate di Sotto o in un convegno di Forza
Nuova, ma nel governo dell’Ulivo è soltanto un segno di quanto siamo caduti
in basso (C.O.).
26.11.’00