Si avvicinano inesorabilmente le feste e anche quest’anno, come di consueto,
il titolare della vicina parrocchia si è presentato nel condominio dove
abito per la benedizione degli appartamenti. Io, per fortuna, ero
assente. Dico “per fortuna” perché i miei incontri con quel degno
esponente del clero, sono sempre stati segnati, per un verso o per l’altro,
dall’imbarazzo. Capirete: in teoria, visti i miei impegni ideologici
in materia ecclesiastica, dovrei, se non proprio sguinzagliargli addosso
i cani, almeno intimargli di non mettere piede in casa mia e di tenersene
alla larga in futuro; in pratica – trattandosi di persona anziana, cui
mi legano, tra l’altro, delle consuetudini familiari – mi spiacerebbe
un po’ mostrarmi scortese nei suoi riguardi. E poi quella delle
benedizione delle case, tutto sommato, è una tradizione gentile, nonché
uno dei pochi momenti non strettamente mercantili di tutto l’ambaradàn
natalizio. Insomma, non so mai come comportarmi, e se non mi basta,
naturalmente, il preannuncio della sua visita per darmela a gambe (sarebbe
una reazione poco dignitosa), diciamo che se all’ora indicata dal solito
cartellino affisso sulla porta dell’ascensore mi trovo ad avere da fare
altrove, non mi affretto certo a rientrare.
Quest’anno, comunque, è andato tutto bene.
Io non c’ero, lui è venuto, ha fatto quel che doveva fare e si è
lasciato dietro, come usa, un’immaginetta. Anche quella delle immaginette,
vi dirò, è una consuetudine per cui ho una certa tolleranza. Con
i loro colori vivaci e l’iconografia ingenua che le contraddistingue,
quei pezzetti di carta esprimono – mi sembra – l’idea di una religiosità
d’altri tempi, di una fede innocua che mi riporta , non so neanche io
esattamente perché, ai giorni della mia infanzia. I santini che quel
vecchio prete distribuiva erano, da sempre, quelli con l’immagine del
Divino Bambino di Praga, una dolce figura infantile incoronata e avvolta
in vesti preziose, secondo una tipologia nettamente barocca, e, anche se
non saprei spiegarvi quali rapporti spirituali intrattenga con la capitale
céca la parrocchia del mio quartiere, avevo finito per affezionarmici.
Che volete, gli impegni ideologici sono impegni ideologici, non ci
piove, ma con il tempo si diventa tutti sentimentali.
Stavolta, però, l’iconografia proposta è tutta
diversa. Invece dell’immaginetta in rosso azzurro e oro che mi aspettavo,
ho trovato in anticamera un orrendo calendarietto plastificato in quadricromia,
sulla cui copertina fa mostra di sé, su uno sfondo azzurro cielo piuttosto
melenso, il fotocolor di madre Teresa di Calcutta, completato con una scritta
benedicente in lingua inglese tracciata con quella che suppongo fosse la
sua grafia. E, francamente, ci sono restato male.
Intendiamoci. Non ho nulla, proprio nulla
contro la venerata figura di quella religiosa. Anche se non oserei
affermare di condividere al cento per cento i suoi criteri di intervento
contro la miseria del Terzo Mondo, ne ho ammirato a suo tempo la dedizione
e non mi sognerei di parlarne in termini meno che rispettosi. Eppure…
eppure, che volete che vi dica, mentre l’idea di essere posto idealmente
sotto la protezione del Divino Bambino di Praga toccava, non so come, qualche
corda nel mio cuore di vecchio miscredente, mi sono accorto che a una benedizione
da parte di madre Teresa, istintivamente, rilutto. Il che è irrazionale,
me ne rendo conto, perché un laico di buon senso non dovrebbe trovare niente
di cui compiacersi nell’immagine di un fanciullo in paramenti regali,
specialmente nell’occasione di un ciclo di feste che ne celebra la nascita
in un’umile stalla, mentre dovrebbe, se non altro, riconoscere l’impegno
e il disinteresse umano di chi, concretamente, ha tanto operato a vantaggio
di un certo numero di nostri sfortunati fratelli. Suppongo, anzi,
che sia in base a un ragionamento del genere che i responsabili della parrocchia
hanno deciso di cambiare l’iconografia del loro santino natalizio. Mettiamoci
qualcosa di moderno, si saranno detti, qualcosa cui nessuno possa obiettare,
qualcosa che faccia capire a tutti, laici e mangiapreti compresi, che la
Chiesa è in prima fila contro i mali di questo mondo, che i suoi esponenti,
anzi, agiscono concretamente laddove gli altri si limitano a vane chiacchiere
e auspici. E sono caduti, fatalmente, sull’immagine dell’inquietante
religiosa kosovara che il papa ha da poco proposto alla gloria degli altari.
Non è affar mio, naturalmente, ma secondo me
si sono sbagliati. Nell’immagine di madre Teresa, oggi, difficilmente
si potrebbe leggere un messaggio di fratellanza tra i devoti e gli scettici.
Non è colpa sua, naturalmente, non credo che la cosa le interessasse
in modo particolare, ma oggi la sua figura è soprattutto un’immagine mediatica,
una sorta di frutto avvelenato della vera e propria ossessione in tal senso
che, a quanto pare, domina ai vertici della chiesa. In quanto tale,
non può che proporre alle masse un modello di cristianesimo aggressivo
e fattuale, che, compiaciuto (se non proprio soddisfatto) dei propri risultati,
non accetta mediazioni con il mondo laico e con le altre realtà spirituali,
ma dovunque propone sempre e soltanto se stesso. Il che sarebbe naturale,
ovvio, persino, se non si trattasse, il più delle volte, di un se stesso
tetragono, irremovibile e irriducibile di fronte a qualsiasi pur, ragionevole,
suggerimento. È il cattolicesimo, per fare qualche esempio riconducibile
ai problemi del Terzo Mondo, del bando ai profilattici in presenza dell’AIDS,
dell’esclusività del sacerdozio maschile, della reazione scandalizzata
alla prospettiva di pastori gay, del bando assoluto alla teologia della
rivoluzione. Il cattolicesimo wojtyliano, che della modernità ha
una concezione rigidamente tecnologica e che alle ali dei jet, alle reti
informatiche e – soprattutto – agli schermi televisivi affida la diffusione
di un messaggio tradizionale di mortificazione e obbedienza. Sarà
stata una santa, madre Teresa, non ne dubito, anche se credeva, mi dicono,
alla funzione rigeneratrice del dolore, ma da una santità che più che dalla
devozione popolare nasce dalle campagne televisive tendo, istintivamente,
a ritrarmi.
Se mi sbaglio, naturalmente, spero che, se
non lei, almeno il Divino Bambino di Praga mi perdoni.
07.12.’03