Il prezzo della felicità

La caccia | Trasmessa il: 11/14/2004



Non so se siate stati colpiti anche voi dalla lettera, pubblicata sulle pagine milanesi di “Repubblica” martedì ultimo scorso, in cui un cittadino imbufalito protesta perché, dopo aver ordinato in un bar di Brera tre bibite segnate sul listino a tre euro l’una, di euro da pagare sul conto ne ha trovato quindici, e, alle sue proteste, si è sentito rispondere che quello era il prezzo dell’happy hour.   Sì, ammetto che come problema è un po’ futile, ma non abbastanza – forse – perché non se ne possa ricavare qualche salutare lezione.
        La prima, naturalmente, è quella di evitare quel bar come la peste.  Oh Dio, ai tavolini di quel locale, se l’ho correttamente individuato, ci si siede sempre a proprio rischio, tanto l’intenzione di spennare il cliente è inscritta nell’arredamento, nel decoro, nell’atteggiamento del personale.  Ma è buona norma che i prezzi siano indicati correttamente, specificando, se del caso, le eventuali variazioni previste nel corso della giornata.  A dispetto degli esercenti di Brera (e degli altri quartieri “di vita” della città) quelle indicazioni sono, non che obbligatorie, tassative e chi le aggira merita ogni possibile sanzione.
        Ma questo, in fondo, è ovvio.  Più interessante, mi sembra, è la motivazione fornita all’incauto consumatore.  Perché l’happy hour (l’ora felice, per i puristi) non dovrebbe essere, a logica, un lasso di tempo in cui i prezzi delle consumazioni vengono maggiorati.  Se ricordo qualcosa di quando mi capitava, ogni tanto, di entrare in un bar, si tratta, al contrario, di un orario in cui, a fini promozionali, si fa pagare di meno.  Credo che l’idea sia nata, anni fa, negli Stati Uniti, per attirare la clientela davanti ai banchi di mescita anche al di fuori dei momenti tradizionalmente dedicati all’aperitivo, con la promessa di addebitare per ogni drink, data l’ora, la metà del prezzo corrente.  In seguito, una più attenta valutazione del rapporto tra prezzi praticati e costo della materia prima ha spinto molti gestori a invertire l’ordine dei fattori, proponendo, sempre in orario di stanca, due bibite al prezzo di una.   una concezione un po’ monetaristica della felicità e prescinde del tutto da eventuali problemi epatici del cliente, ma è un’idea che ha avuto fortuna e credo che la si continui ad applicare in buona parte del mondo.
        A Milano no.  A Milano l’happy hour coincide con l’orario di massimo affollamento, non prevede sconti ed è caratterizzata dal fatto che a chi ordina da bere si consente di servirsi liberamente a certi pretesi buffet (composti di solito da avanzi riciclati del lunch di mezzogiorno), risparmiandosi così il disturbo e la spesa di tornare a casa o fermarsi in un ristorante prima di proseguire la serata.  Si tratta, a pensarci bene, di una strana cerimonia, in cui, in un clima di generale bailamme, tra le urla dei convenuti, le esalazioni del tabacco e lo squillare continuo dei telefonini –  in condizioni, cioè, di grave inquinamento atmosferico, acustico ed elettronico –  si cerca al tempo stesso di bere, mangiare, fumare, parlare e telefonare, tenendo per di più in equilibrio certi precari piatti di plastica sottile, che rappresentano, quanto a suppellettili, tutto ciò che ti passa la casa.
        D’accordo, eh, d’accordo.  Per quanto si possano compiangere gli adepti di un simile rito, contenti loro, come si dice, contenti tutti.  E poi, con i tempi che corrono, l’idea di risparmiare sul prezzo della cena può giustificare qualche sacrificio.  Certo, se poi si esige un supplemento sulle consumazioni il vantaggio va un po’ a ramengo, ma, d’altra parte, se un’idea ha successo (e questa ne ha: basta darsi un’occhiata in giro nei posti e all’ora giusta) non si vede perché non si debba farla pagare.  Tutto si paga, in questo brutto mondo, e la pretesa di avere qualcosa gratis, sia pure i panini del giorno prima ritagliati a fettine, è notoriamente illusoria.  Gli esercenti che non espongono il supplemento nel conto avranno sicuramente fatto i propri calcoli e avranno trovato, in altra forma, il modo di non perderci.
        D’altra parte, come dice la pubblicità, ci sono cose che non hanno prezzo.  E non c’è valore più ambito, nella nostra operosa metropoli, di quello di adeguarsi agli usi e ai costumi correnti.   da parecchio tempo che i nostri concittadini sono, per così dire, un po’ boccaloni, nel senso di alquanto corrivi ad aderire entusiasticamente a proposte che forse sarebbe meglio vagliare con un minimo di diffidenza.  Non sarà un caso se Milano è la città di CL, della Lega e di Berlusconi, no?   E non sarà un caso se non ci sia moda o infatuazione collettiva che non vi attecchisca con il vigore della malapianta.  I patiti dell’happy hour, con tutta probabilità, non pagano per quanto viene loro servito: pagano per il piacere di adeguarsi alla moda che prevede quel quotidiano appuntamento e si fosse di moda, che so, farsi assestare da appositi professionisti, prima di cena, un paio di robusti calcioni nel sedere farebbero la fila per entrare nei locali all’uopo deputati accalcandosi e sgomitando per essere i primi a protendere le terga.  E pagando, naturalmente, pagando, perché a farsi prendere a calci gratis, inutile dirlo, non si divertirebbe nessuno.

14.11.’04