Che lo spionaggio non fosse una scienza
esatta, naturalmente, lo sapevamo già. È una verità ribadita da autori
che ci sono cari – gli Ambler, i Fleming, i Le Carré – e rientra quasi
automaticamente nella caratterizzazione di quel particolare tipo di attività.
Quello dell’intelligence è, per definizione, uno sporco mestiere
(anche se, come si dice, qualcuno lo deve fare) e non ha necessariamente
tra i suoi obiettivi la “scoperta” di una verità qualsivoglia. Ogni
spia degna di questo nome, da James Bond in giù, sa che, per quanto gli
possa venire richiesto dai suoi capi di svelare un qualcosa che altri vorrebbe
celare, il suo compito, in ultima istanza, sarà più spesso quello di nasconderlo
che di rivelarlo.
Tuttavia,
cogliere quella massima sulle labbra del direttore in carica della CIA,
George Tenet, fa impressione. Certo, il poveraccio invocava i privilegi
della relatività per scrollarsi di dosso la nomea, che Bush gli lascerebbe
volentieri, di essere lui quello che ha ingannato governo e paese, spingendoli
alla guerra con i falsi dati sulle celebri armi di distruzione di massa
in mano a Saddam. Ma, insomma, un capo della CIA che afferma, implicitamente,
che dei risultati della sua organizzazione non è il caso di fidarsi più
che tanto, be’, questa non l’avevamo ancora sentita. Che delle
spie sia meglio diffidare è cosa nota, ma se a dirci di non fidarsi sono
loro ci si trova precipitati di colpo in pieno paradosso, sul modello di
quello classico del cretese bugiardo. Ricordate, no? A quello
che dice il capo della CIA non bisogna credere mai, ma se è lui che ci
dice di non crederci, allora vuol dire che quello che dice è credibile
e quindi bisogna credergli anche se ci chiede di non credergli affatto
e così via all’infinito.
Dal
paradosso si esce, naturalmente, ricordando che il vero bugiardo, in tutta
la faccenda, è appunto Bush, con i suoi alleati e reggicoda inglesi, spagnoli,
italiani, polacchi e chi più ne ha più ne metta. Tutti sapevano,
e non gliene fregava proprio niente, che quelle armi erano una bufala.
Berlusconi, quando è stato catturato Saddam, ci ha persino scherzato
sopra.
Che i nostri capi ci ingannino non è,
ovviamente, una grande scoperta: a non confidare nei principi esorta già
la Bibbia (al salmo 146,3), su un calcolato gioco di bugie e reticenze
si fonda da sempre la diplomazia internazionale e non per niente l’ex
ambasciatore Romano ci ricordava giorni fa in un suo articolo le menzogne
con cui sono stati giustificati i principali massacri degli ultimi centocinquanta
anni, dal falso telegramma di Guglielmo I che servì a scatenare la guerra
franco prussiana all’attacco simulato al posto di frontiera tedesco con
cui Hitler sentì il bisogno di motivare l’invasione della Polonia. Ne
scriveva, l’ambasciatore, con un certo compiacimento, come di chi vuol
fare capire che lui sì che sa come va il mondo e vano sarebbe per noi inesperti
scandalizzarcene. Così sempre si è fatto e così – stiamo pure sicuri
– si continuerà a fare.
Avrà
ragione lui, figuriamoci. Ma forse varrebbe la pena ricordare che
né Bismarck né Hitler, pur sensibili, ciascuno a modo suo, alle necessità
della propaganda, ritenevano di doversi preoccupare di una vera opinione
pubblica, dell’esistenza di un corpo civile da cui dipende l’investitura
politica e che ha bisogno, quindi, di informazioni ragionevolmente attendibili
sulla base delle quali esprimere le proprie scelte. I tiranni e gli
autocrati possono mentire quando vogliono e non fanno che il loro mestiere:
in bocca a un presidente (più o meno) democraticamente eletto la giustificazione
di una menzogna in nome della ragion di stato (che altro Bush, in sua difesa,
non ha saputo accampare) fa inevitabilmente un effetto diverso. Di
bugie ne abbiamo sentite tante, anche qui in Italia, nel nostro piccolo,
ma è difficile sfuggire all’impressione che con questa storiaccia delle
armi irakene si sia fatto un significativo salto di qualità democratica.
All’indietro, naturalmente.
08.02.’04