Il nome dell'eroe

La caccia | Trasmessa il: 05/11/2003



Non so se avete presente quello spot televisivo in cui Sylvester Stallone, o qualcuno che gli somiglia parecchio, con un’audace azione di commando alla 007 salva una nave da crociera da certi cattivissimi sequestratori, ma poi si vede sottoporre da tutti i salvati a lazzi e cachinni vari perché, richiesto da una bella passeggera del suo nome, deve ammettere di chiamarsi non Bond, James Bond, o qualcosa del genere, ma semplicemente “Bubi” e il nome, si sa, ha sempre una certa importanza.    Che è vero, naturalmente, perché i nomi non sono, checché ne pensino filosofi e linguisti, dei puri flati vocis, delle arbitrarie etichette sonore appiccicate alle persone e agli oggetti, per cui la rosa, anche se non si chiamasse rosa, avrebbe lo stesso il suo soave profumo e l’agente segreto, anche se si chiama Bubi, può essere eroico e prestante quanto basta a soddisfare qualsiasi passeggera.  I nomi sono l’espressione di alcune complesse operazioni mentali con le quali, oltre a costituire – in un certo senso – l’oggetto stesso che denominiamo, gli attribuiamo i valori che riteniamo di dovergli attribuire: una procedura tanto rilevante sul piano sociale che Platone, nel Cratilo, la sottrae all’iniziativa e alla responsabilità dei privati cittadini e la assegna, come compito caratteristico, al Legislatore.
        Oggi che i legislatori in senso stretto danno così cattiva prova di sé (ma il vecchio Platone, naturalmente, pensava ai Filosofi Guida della sua città ideale, che dal nostro punto di vista, con ogni probabilità, sarebbero peggio), preferiamo attribuire quella funzione al consenso della comunità dei parlanti, o a qualcosa del genere, ma la sostanza del problema è la stessa.  Non tanto perché un nome che di solito si assegna ai cagnolini da salotto o a personaggi di pari spessore poco si addice a un eroe, quanto perché è l’atto stesso del denominarlo in questo o quel modo che definisce, dal punto di vista dell’apprezzamento sociale, l’eroe o il cagnolino.
Simmetricamente, di fronte a un’entità che non abbia ancora un suo nome le nostre reazioni saranno necessariamente incerte: potremmo dire, anzi, che a tutti gli effetti quell’entità per noi non esiste.  Avrete notato, suppongo, che soltanto dopo che l’uso giornalistico e televisivo ha trasformato in un vero e proprio nome l’acronimo Sars abbiamo cominciato ad avere davvero paura di quella malattia.  Quella di “sindrome respiratoria acuta” era una definizione troppo astrusa e il termine di “polmonite atipica” era troppo generico per suscitare delle vere reazioni emotive a livello di massa: in fondo, la gente non sa bene cosa sia una sindrome e si è abituata da un pezzo a convivere con la polmonite.  Ma la “Sars”, be’, la Sars è davvero un’altra cosa e la novità del nome è abbastanza inquietante per convincerci della pericolosità del fenomeno.  Tra l’invenzione del termine e la fioritura di mascherine e termometri negli aeroporti c’è indubbiamente un legame che non è soltanto cronologico.
Lo spot di cui parlavamo, dunque, parte piuttosto bene.  Peccato che quando si tratta di venire al dunque viri nella demenzialità pura, con l’intervento di una voce fuori campo che ci raccomanda, nel caso desiderassimo acquistare delle buste di salumi preaffettati, di scegliere quelle che portano un certo, celebre nome.  Che significa spingere il processo veramente un po’ troppo in là, perché i marchi commerciali sono anch’essi dei nomi, naturalmente, ma nomi in regime di concorrenza, contrapposti gli uni agli altri in una contesa per risolvere la quale né il legislatore platonico né la comunità dei parlanti possono fornirci dei criteri.  Per decidere qual è il migliore salame tra due, ammesso che mi piaccia il salame e non abbia particolari problemi di trigliceridi, altro non posso fare che assaggiarlo ed è questo che, in genere, la pubblicità mi raccomanda di fare.  Uno spot che mi consiglia di affidarmi soltanto al prestigio della marca, oltre ad abusare della mia credulità, ha il grave difetto di dare per acclarato quello che, in fondo, è il problema di base, se esista – cioè – su quella marca un consenso che ne garantisca l’eccellenza.  Anche perché se un tale consenso ci fosse il prodotto non avrebbe affatto bisogno di essere pubblicizzato.
Ma le leggi della comunicazione di massa sono spietate e si fondano – soprattutto – su una rigorosa distinzione dei ruoli.  C’è chi vuole convincere e ci deve essere chi si lascia convincere.  A lasciare spazio alla critica costruttiva non ci pensa proprio nessuno.  Una volta si diceva che a convincere era il confronto: oggi come oggi, invitare i consumatori a un confronto può essere altrettanto pericoloso che permettere ai cittadini di verificare nel concreto l’affidabilità delle promesse dei politici.  È molto più sicuro impiantare a martellate nella zucca del pubblico delle verità puramente nominali.  Siamo tutti, cittadini e consumatori, prigionieri di un’organizzazione autoritaria dei messaggi che riceviamo: una prigionia da cui nessun James Bond (o nessun Bubi) sembra, al momento, in grado di liberarci.

11.05.’03