Non so se avete presente quello spot
televisivo in cui Sylvester Stallone, o qualcuno che gli somiglia parecchio,
con un’audace azione di commando alla 007 salva una nave da crociera da
certi cattivissimi sequestratori, ma poi si vede sottoporre da tutti i
salvati a lazzi e cachinni vari perché, richiesto da una bella passeggera
del suo nome, deve ammettere di chiamarsi non Bond, James Bond, o qualcosa
del genere, ma semplicemente “Bubi” e il nome, si sa, ha sempre una certa
importanza. Che è vero, naturalmente, perché i nomi non sono,
checché ne pensino filosofi e linguisti, dei puri flati vocis, delle arbitrarie
etichette sonore appiccicate alle persone e agli oggetti, per cui la rosa,
anche se non si chiamasse rosa, avrebbe lo stesso il suo soave profumo
e l’agente segreto, anche se si chiama Bubi, può essere eroico e prestante
quanto basta a soddisfare qualsiasi passeggera. I nomi sono l’espressione
di alcune complesse operazioni mentali con le quali, oltre a costituire
– in un certo senso – l’oggetto stesso che denominiamo, gli attribuiamo
i valori che riteniamo di dovergli attribuire: una procedura tanto rilevante
sul piano sociale che Platone, nel Cratilo, la sottrae all’iniziativa
e alla responsabilità dei privati cittadini e la assegna, come compito
caratteristico, al Legislatore.
Oggi
che i legislatori in senso stretto danno così cattiva prova di sé (ma il
vecchio Platone, naturalmente, pensava ai Filosofi Guida della sua città
ideale, che dal nostro punto di vista, con ogni probabilità, sarebbero
peggio), preferiamo attribuire quella funzione al consenso della comunità
dei parlanti, o a qualcosa del genere, ma la sostanza del problema è la
stessa. Non tanto perché un nome che di solito si assegna ai cagnolini
da salotto o a personaggi di pari spessore poco si addice a un eroe, quanto
perché è l’atto stesso del denominarlo in questo o quel modo che definisce,
dal punto di vista dell’apprezzamento sociale, l’eroe o il cagnolino.
Simmetricamente, di fronte a un’entità
che non abbia ancora un suo nome le nostre reazioni saranno necessariamente
incerte: potremmo dire, anzi, che a tutti gli effetti quell’entità per
noi non esiste. Avrete notato, suppongo, che soltanto dopo che l’uso
giornalistico e televisivo ha trasformato in un vero e proprio nome l’acronimo
Sars abbiamo cominciato ad avere davvero paura di quella malattia. Quella
di “sindrome respiratoria acuta” era una definizione troppo astrusa e
il termine di “polmonite atipica” era troppo generico per suscitare delle
vere reazioni emotive a livello di massa: in fondo, la gente non sa bene
cosa sia una sindrome e si è abituata da un pezzo a convivere con la polmonite.
Ma la “Sars”, be’, la Sars è davvero un’altra cosa e la novità
del nome è abbastanza inquietante per convincerci della pericolosità del
fenomeno. Tra l’invenzione del termine e la fioritura di mascherine
e termometri negli aeroporti c’è indubbiamente un legame che non è soltanto
cronologico.
Lo spot di cui parlavamo, dunque, parte
piuttosto bene. Peccato che quando si tratta di venire al dunque
viri nella demenzialità pura, con l’intervento di una voce fuori campo
che ci raccomanda, nel caso desiderassimo acquistare delle buste di salumi
preaffettati, di scegliere quelle che portano un certo, celebre nome. Che
significa spingere il processo veramente un po’ troppo in là, perché i
marchi commerciali sono anch’essi dei nomi, naturalmente, ma nomi in regime
di concorrenza, contrapposti gli uni agli altri in una contesa per risolvere
la quale né il legislatore platonico né la comunità dei parlanti possono
fornirci dei criteri. Per decidere qual è il migliore salame tra
due, ammesso che mi piaccia il salame e non abbia particolari problemi
di trigliceridi, altro non posso fare che assaggiarlo ed è questo che,
in genere, la pubblicità mi raccomanda di fare. Uno spot che mi consiglia
di affidarmi soltanto al prestigio della marca, oltre ad abusare della
mia credulità, ha il grave difetto di dare per acclarato quello che, in
fondo, è il problema di base, se esista – cioè – su quella marca un consenso
che ne garantisca l’eccellenza. Anche perché se un tale consenso
ci fosse il prodotto non avrebbe affatto bisogno di essere pubblicizzato.
Ma le leggi della comunicazione di massa
sono spietate e si fondano – soprattutto – su una rigorosa distinzione
dei ruoli. C’è chi vuole convincere e ci deve essere chi si lascia
convincere. A lasciare spazio alla critica costruttiva non ci pensa
proprio nessuno. Una volta si diceva che a convincere era il confronto:
oggi come oggi, invitare i consumatori a un confronto può essere altrettanto
pericoloso che permettere ai cittadini di verificare nel concreto l’affidabilità
delle promesse dei politici. È molto più sicuro impiantare a martellate
nella zucca del pubblico delle verità puramente nominali. Siamo tutti,
cittadini e consumatori, prigionieri di un’organizzazione autoritaria
dei messaggi che riceviamo: una prigionia da cui nessun James Bond (o nessun
Bubi) sembra, al momento, in grado di liberarci.
11.05.’03