Il mistero delle cravatte a pois

La caccia | Trasmessa il: 04/10/2005



Non vi spazientite, vi prego, se resto in tema elettorale.  Ma è solo in Italia che, dopo un confronto importante come quello di domenica scorsa, in presenza di risultati imprevisti e di un discreto sconquasso del quadro politico, si può passare una settimana a discutere non delle elezioni in sé, ma di una trasmissione in cui le si sono commentate.  È bastata l’augusta e inattesa presenza di Berlusconi in RAI 3, martedì sera, per dirottare sull’argomento l’interesse dei commentatori, in un profluvio di analisi, discettazioni, articoli giornalistici, microfoni aperti e trasmissioni derivate che, nell’insieme, testimonia soprattutto dell’inguaribile autoreferenzialità del nostro sistema informativo.  Forse varrebbe la pena, a questo punto, investire direttamente della presidenza del consiglio il mite Giovanni Floris, lasciando che Prodi e Berlusconi gareggino tra di loro per la conduzione di Ballarò.
        Io, a dire il vero, martedì sera avevo altro da fare, e mi sono perduto l’evento.  Sono stato costretto, così, a vedermelo il giorno dopo in registrata, nel timore di aver mancato qualche sviluppo fondamentale del dibattito ideologico in corso.  Il che mi metteva nelle condizioni ideali, in teoria, per coglierne tutte le sfumature, esente da quell’effetto sorpresa da cui sono stati spiazzati i telespettatori in diretta quando sono apparse sul monitor le rosse chiome del capo del governo.  Ma non ho colto, vi confesso, quasi niente.  Il dibattito, a parte qualche battuta occasionale, mi è sembrato noiosissimo, visto che con uno convinto di aver perso solo perché non si è impegnato abbastanza per vincere che cosa mai si può dibattere, e poi ero distratto.  Ho passato quasi tutto il tempo a riflettere su quello che Sherlock Holmes avrebbe senza dubbio definito il mistero delle cravatte a pois.
        Lo avrete notato, suppongo, anche voi.  I convocati erano quattro: l’Uomo di Arcore, appunto, e poi D’Alema, Rutelli e, poveretto, il ministro Alemanno, la cui specialità è quella di smarcarsi dal berlusconismo puro, ma in quelle circostanze non poteva proprio farlo e infatti è restato quasi sempre zitto. Be’, com’è come non è, portavano tutti e quattro lo stesso modello di cravatta.  Blu, presumibilmente di seta, a pallini bianchi, un po’ più discreti nel caso di Rutelli, di misura piuttosto cospicua per gli altri tre.  E ancorché parecchi altri indumenti del genere allignassero in studio, al collo di spettatori, guardie del corpo e portaborse vari, per cui immagino si tratti di un articolo largamente diffuso, la cosa dava un po’ da pensare.
        Non c’è niente di strano, direte voi.  È un caso tipico in cui l’omogeneità malcelata dei nostri politici si lascia evidenziare, per uno scherzo della sorte, da un particolare affatto esteriore.  Frequentano, costoro, tutti lo stesso giro, si occupano,  delle medesime cose, concordano sull’imperativo di tenere quanto più possibile fuori dai piedi eventuali terzi incomodi, si danno immancabilmente del tu, perché non dovrebbero portare la stessa cravatta?  Oltretutto, la scelta di un insieme cromatico ideologicamente neutro, come il blu a pallini bianchi, si addice a un’occasione in cui è meglio non ostentare appartenenze troppo pronunciate.  Solo i leghisti DOC, ormai, sono fedeli al colore di partito e nessuno si aspetta che D’Alema inalberi in diretta un tessuto rosso quercia (se esiste un rosso quercia) o Rutelli un motivo a margherite.  E poi l’Italia è il paese della moda e se la moda impone il blu a pallini bianchi, che blu a pallini bianchi sia.
        Tutto normale, dunque.   Ma resta un particolare su cui riflettere.  Quei quattro, a pensarci, appartengono, sì, allo stesso ceto politico, ma ci sono arrivati per vie abbastanza diverse.   Berlusconi, sappiamo tutti chi è e da dove viene.  D’Alema è un figlio d’arte del vecchio PCI, il che già configura due modelli antropologici alquanto diversi.  Rutelli, che Dio lo perdoni, viene dall’alernativismo degli anni ’70, sia pure in versione soft, e quanto ad Alemanno, non so nulla delle sue esperienze pregresse, ma ho il mezzo sospetto che non riguardassero i partiti dell’arco costituzionale (e neanche i boy scout).  L’omologazione di cui testimoniavano quei tagli di tessuto, dunque, non era tanto un dato di partenza, un semplice marker esistenziale, quanto un punto d’arrivo, l’ostentazione orgogliosa di un bersaglio centrato, magari a prezzo di qualche sforzo.
Non per tutti, però.  Da un punto di vista strettamente referenziale, non erano, quelle cravatte, tutte sullo stesso piano.  Se attorno a tre colli su quattro, la loro presenza – per un motivo o per l’altro – strideva, nel quarto caso l’oggetto sembrava naturalissimo, come se chi lo esibiva non avesse mai portato in vita sua un altro modello.  Il blu a pallini bianchi, si sa, è uno degli accessori classici dei doppiopetto di Armani e degli altri parafernalia della imprenditorialità lombarda.  La sua diffusione, con un pizzico di malizia, potrebbe essere vista come una prova del fatto che i vari percorsi in cui oggi come oggi si articola l’apprendistato politico nel nostro paese portano tutti, comunque, a Lui.  Non rivela l’esistenza di un’omogeneità qualsiasi: denuncia un processo avanzato di berlusconizzazione.
Sì, sì, d’accordo, forse esagero.  Ma aspetto comunque con ansia la prossima apparizione televisiva di Prodi, per controllare che cosa avrà al collo lui.

10.04.’05