È difficile, in questo mondo imperfetto,
soddisfare davvero tutti, soprattutto quando si tratta di dirimere opposti
di vista o prendere posizione su questioni controverse. Chi poi,
per necessità o vocazione, esercita l’arduo mestiere del giudice sembra
escluso a priori da ogni possibilità in tal senso. Terzo tra due
parti opposte, il giudice deve comunque pronunciare una sentenza che, se
accontenterà l’accusatore, spiacerà all’imputato, e viceversa. Potrà
scontentare tutti e due, naturalmente, perché la natura umana è quello
che è, ma farli contenti entrambi, be’, sarebbe un’impresa davvero difficile.
Eppure,
bisogna ammettere che i “giudici del riesame” del tribunale di Napoli
sono riusciti ad avvicinarsi quanto umanamente è possibile a questo paradossale
obiettivo. L’ordinanza con cui hanno ridato la libertà gli otto
agenti e funzionari di polizia messi agli arresti domiciliari dai loro
colleghi della procura per i noti fatti del 17 marzo 2001, è stata accolta
da una rara unanimità di consensi. Al legittimo giubilo degli interessati
e dei loro difensori si è unito, paradossalmente, quello di quanti, a torto
o a ragione, avevano sponsorizzato l’accusa. I primi hanno apprezzato
la sostanza di un provvedimento, che, rimettendo in libertà i singoli questurini,
ha reso il debito onore alla questura e alle forze di polizia nel loro
complesso. I secondi non hanno potuto lamentarsi di un dispositivo
che – per citare una fonte non sospetta come il “Corriere della sera”
di giovedì scorso – non nasconde la sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza
a carico degli indagati”, nel senso che la loro condotta è risultata violenta,
vessatoria e “in palese violazione delle norme di legge”; i testimoni
a carico “appaiono, allo stato dei fatti, complessivamente credibili”,
e, nel complesso, “può dirsi acquisito, in termini di consistente certezza,
che sono state eseguite perquisizioni con modalità assolutamente umilianti
e vessatorie” e che i ragazzi fermati “nel corso della permanenza in
caserma … hanno subito maltrattamenti particolarmente violenti,
riportando lesioni causate dalla reiterata inflizione di pugni, calci e
colpi di manganello”, un trattamento, nel complesso, piuttosto difforme
da quello che sarebbe stato lecito attendersi da parte della polizia di
uno stato democratico, almeno come siamo abituati a vederla dipinta nelle
più note serie di telefilm.
Che,
con tutto questo, li abbiano rimessi a piede libero non deve, tuttavia,
stupire nessuno. Il paradosso è soltanto apparente. Non tutti
i comportamenti scorretti comportano l’incarcerazione immediata e quei
poliziotti, a detta dei loro giudici, pur avendone fatte di ogni, non si
erano mai resi colpevoli del reato per cui li avevano arrestati.
Le loro gesta, a quanto si legge, vanno considerate “l’espletamento di
attività di polizia consentite dalla legge, poi attuate con modalità irrituali
e illecite”, e non certo “un’azione finalizzata a tenere in una situazione
di vincolo soggetti rei di avere partecipato a una manifestazione”. Insomma,
non avevano sequestrato nessuno e siccome l’accusa che aveva determinato
l’arresto era, appunto, quella di sequestro di persona, non era davvero
il caso di tenerli dentro.
Personalmente,
mi permetterò di non fare commenti. Ho come la vaga impressione
che ci sia qualcosa che non funzioni, nel senso che non mi è chiaro come
stia in piedi il concetto di “attività lecita attuata illecitamente”
e non vedo come si possa sottoporre chicchessia a trattamenti umilianti
e vessatori senza tenerlo in una situazione di vincolo, ma non sono abbastanza
versato nel giure per pronunciarmi in merito. Oltretutto, tra l’ipotesi
di tenere qualcuno in galera (o agli arresti domiciliari, fingendo, per
comodità, che sia lo stesso) e quella di rimetterlo, se possibile, in libertà,
sono sempre stato di tutto cuore per la seconda e non sarò certo io a protestare
se, per una volta, la si è applicata. Speriamo soltanto che la tendenza
in tal senso prenda sempre più piede nella magistratura, anche nel caso
che i soggetti interessati non appartengano alle forze di polizia e non
possano vantare i molti meriti relativi.
Comunque,
da tutta la faccenda si può ricavare una specie di morale. O, piuttosto,
un consiglio, a uso di quanti corrano, per un motivo o per l’altro, il
rischio di trovarsi in ceppi di fronte alla maestà della legge. Abbiano
cura, costoro, di farsi accusare di reati gravissimi, affatto sproporzionati,
se possibile, ai fatti di cui devono rendere conto. Non temano le
imputazioni più spropositate. Ne saranno doverosamente prosciolti
e vedranno che la cosa comporterà, per qualche misteriosa facoltà transitiva,
una specie di tacita assoluzione da qualsiasi altra accusa, un benefico
colpo di spugna sulle eventuali azioni disdicevoli che possano avere, per
avventura, commesso. Perché insomma, se vi assolvono da un’accusa
grave e infamante come quella di sequestro di persona, roba da banditi
sardi, mica paglia, a chi volete che importi del resto? Cosa mai
conteranno, tanto per dire, tre schiaffi e due manganellate? Lo sanno
tutti che le caserme non sono convitti per educande, qualsiasi cosa in
contrario possa capitare di vedere in televisione. Al massimo, per
male che vada, vi addebiteranno un comportamento un po’ irrituale, l’attuazione
illecita di un’attività lecita, appunto, una bagatella che non vi costerà
neanche un giorno di sospensione dal servizio. È un po’ lo stesso
principio per cui Berlusconi, che di queste cose se ne intende, non ha
niente in contrario a farsi definire “un tiranno”, un termine che con
tutta evidenza non gli compete, non foss’altro che per quel certo alone
tragico che lo caratterizza dai tempi di Creonte e di Antigone, e invece
si incavola mica male se gli si rinfaccia un semplice, banale conflitto
di interessi. Succede un po’ come tra i pesci: l’accusa grossa
si mangia la piccola e buona notte. È un metodo forse un po’ tortuoso
per far riconoscere la propria innocenza, ma una certa tortuosità, lo sappiamo,
fa parte a pieno titolo del patrimonio ideologico di questo nostro, felice
paese.
26.05.’02