Il lungo sonno del pero (omaggio a Ludovico Ariosto)

La caccia | Trasmessa il: 04/05/2009


    Fu già una zucca, come scrive l'Ariosto nella Satira VII (vv. 70 ss.), che montò sublime in pochi giorni, tanto che coperse a un pero suo vicin l'ultime cime. Era, lo sappiamo, una zucca un po' deficitaria sul piano morale, ma audace e determinata e – soprattutto – usa alle frequentazioni di vegetali importanti, da uno dei quali aveva ottenuto il raro privilegio di controllare una buona metà delle televisioni dell'orto, per cui, quando il suo protettore, come succede, aveva cominciato ad avvizzire, aveva deciso di scendere essa stessa in campo. I suoi nemici la temevano, ma all'inizio la avevano sottovalutata, commettendo parecchi errori: le avevano contrapposto certi zucchini di rara inettitudine, avevano cercato (invano) di coinvolgerla nei loro giochini, le avevano lasciato persino il controllo delle sue televisioni, anche se la legge non lo avrebbe permesso. Insomma avevano involontariamente fatto di tutto per spianarle la strada.
    La cucurbitacea in questione, così, di strada ne fece parecchia: si alleò agli ortaggi meno rispettabili e più chiacchierati dei dintorni, quelli da cui gli altri preferivano stare alla larga, si procurò potenti sostenitori esterni, fece molte promesse senza curarsi del mantenerle, comparve infinite volte in televisione e acquisì in tal modo fama di grande zucca di stato. Non riuscì mai, a dire il vero, a sconfiggere un certo cocomero emiliano che più degli altri le era ostile, ma per fortuna, ogni volta che quello vinceva ci pensavano i suoi stessi alleati a toglierlo di mezzo. E a un certo punto arrivò così in alto, ma così in alto, che tutti gli ortaggi cominciarono a dare per scontato che nessuno avrebbe mai potuto scalzarla dalla sua posizione.
    La zucca stessa, in verità, ne era convinta e non perdeva occasione per vantarsene, tanto è vero che quando il pero una mattina gli occhi aperse, ch'avea dormito un lungo sonno, e visti li nuovi frutti sul capo sederse le disse “Chi sei tu, come salisti qua su? Dove eri dianzi quando lasso al sonno abbandonai questi occhi tristi?” non si scompose affatto. Ella gli disse il nome e dove al basso fu piantata mostrolli e che in tre mesi quivi era giunta accelerando il passo. Aggiunse anche che secondo gli ultimi sondaggi il suo gradimento personale superava largamente il 72 per cento. Si aspettava, probabilmente, ammirazione e complimenti, ma non fu così. “Et io” l'arbor soggiunse “a pena ascesi a questa altezza poi che al caldo e al gielo con tutti i venti trenta anni contesi. Ma tu, che a un volger d'occhi arrivi in cielo, rendite certa che non meno in fretta che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo”.
    Va be'. L'Ariosto ha sicuramente scritto di meglio e non si riferiva certamente alla situazione cui pensiamo noi e non solo perché i tempi, in politica e in orticultura, sono oviamente diversa. Lui la settima satira l'aveva scritta per spiegare a un messer Bonaventura Pistorio, segretario ducale, che di fare l'ambasciatore degli Estensi alla corte pontificia non aveva la minima voglia e che delle prospettive di carriera che la carica comportava non gliene poteva importare di meno. Inoltre, in quanto nativo di Reggio Emilia (come Prodi), era, se non proprio comunista, ché il comunismo non era stato ancora inventato, per lo meno predisposto geneticamente a quel genere di pericolosa aberrazione, e quindi dei suoi punti di vista possiamo, anzi, dobbiamo prescindere. Ma se questi versi, un tempo famosi, mi sono tornati alla mente, tanto che mi sono azzardato a riproporveli in questi giorni in cui non c'è commentatore o teorico che dubiti dell'altezza cui certe zucche sono salite e della durata indefinita della loro permanenza in excelsis, è perché nessuno, mi sembra, ha riflettuto abbastanza su un rapporto che all'occhio acuto del vecchio Ludovico non era sfuggito, quello tra l'apparente irresistibilità di certe ascese e il lungo sonno degli astanti. È da parecchio, in effetti, che dormiamo anche noi. Pure, la fragilità stessa della situazione che viviamo, quella di un paese che perde continuamente dei colpi e da chi dovrebbe prendersene cura non riceve a conforto altro che parole, parole, parole, dovrebbe farci capire che altrettanto fragile non può che essere lo stelo della zucca sovrana. In fondo, se il paese è nei guai qulache responsabilità dovrà ben toccare a chi lo governa e quindici anni di permanenza al vertice, con brevi intervalli, sono più che sufficienti per dimostrare la propria inettitudine. Quando il pero sui cui rami siamo precariamente appollaiati si deciderà ad aprire gli occhi, non si lascerà ingannare dai sondaggi, dalle autoesaltazioni (siparietti con Obama compresi) e dalle lodi interessate dei cortigiani e non potrà che rispedire colui con cortese fermezza al punto di partenza. Fidatevi, se non di me, di uno dei classici della nostra letteratura e cerchiamo di svegliarci un po' in fretta.

    05.04.'09