Aldo Cazzullo, un giornalista che negli ultimi mesi si deve essere divertito
a trattare il Presidente del Consiglio con una disinvoltura che sulle pagine
di un giornale paludato come il “Corriere della Sera” di solito non si
usa (e deve avere il sospetto che, ormai, la festa stia per finire) in
un articolo di mercoledì 3 ricorda a Berlusconi i versi che il grande Kostandinos
Kavafis rivolgeva a Marco Antonio sconfitto. È un invito, quello
del poeta, a non piangere invano la fine del proprio potere, le “opere
fallite” e i “disegni delusi”, perché quella musica che il Triumviro,
dalle finestre del suo palazzo, sente allontanarsi e svanire nella notte
non rappresenta altro che la sua fortuna che se va, o, se volete, il Dio
che lo abbandona. E tale consapevolezza bisogna saper affrontare:
“Non ti illudere più, non dire ‘è stato / un sogno’ oppure ‘s’ingannò
l’udito’: / non piegare a così vuote speranze. / Come pronto da tempo,
come un prode … va risoluto accanto alla finestra; / con emozione ascolta
e senza preci, / senza le querimonie degli imbelli, / quasi a fruire di
suprema gioia i suoni, / gli strumenti mirabili di quell’arcano tiaso
/ e saluta Alessandria, che tu perdi”. Versi bellissimi (mi sono
permesso di citarli nella vecchia traduzione di Filippo Maria Pontani,
piuttosto che in quella, che mi sembra meno efficace, utilizzata dal giornalista),
che tuttavia possono nascondere più di una punta di veleno, visto che Marco
Antonio, nella tradizione moralistica antica, non è una figura positiva.
È un po’ il prototipo del mascalzone fortunato, tanto è vero che
Plutarco lo mette in coppia addirittura con il terribile Demetrio Poliorcete
ed è proprio da Plutarco, pur nella logica di una riabilitazione in extremis,
che prende spunto la riflessione del vecchio poeta alessandrino.
Berlusconi, che ha fatto – dice lui – degli ottimi studi classici, si
sarà consolato al pensiero che l’allusione era abbastanza criptica, ma
non avrà certo avuto motivo per sentirsi toccato il cuore da quelle parole.
Forse, il quasi ex Presidente avrebbe preferito
il paragone con un’altra figura citata dallo stesso autore: il Giulio
Cesare di Idi di Marzo, la poesia che nella raccolta canonica delle opere
di Kavafis precede immediatamente Il Dio abbandona Antonio. È vero
che al Divo Giulio l’uomo di Arcore non si è mai espressamente riferito,
ma lo faceva spesso quel Napoleone cui si è tante volte paragonato e anche
per i grandi modelli si può invocare, credo, una sorta di proprietà transitiva.
E non venitemi a dire, naturalmente, che Cesare è stato, se non
altro, un grande teorico della politica e Berlusconi non è mai riuscito
a capire – con tutte le arie che si dà – la teoria della separazione
dei poteri, per cui confonde l’idea del controllo reciproco tra le istituzioni
con quella di un equilibrio concordato tra le forze politiche, che, con
tutta la buona volontà, proprio non sta in piedi. Tutto questo è
vero, ma non toglie che lui si sarebbe senza dubbio riconosciuto nella
scena del grand’uomo che “cospicuo incede per la via col suo corteggio”
e si rifiuta di leggere il foglio che gli porge, di tra la folla, “un
qualche Artemidoro”, che dice, in fretta: “’Leggi questo subito: / è
cosa d’importanza e ti riguarda’”. Invano il poeta lo esorta a
fermarsi, a “differire colloqui e lavori”, a “rimuovere i tanti che
al saluto / si prostrano”, di lasciare che “anche il Senato aspetti”,
perché in quel “grave scritto”, naturalmente, c’è la denuncia della
congiura e leggerlo potrebbe, sì, salvargli la vita, ma solo al prezzo
di ammettere il fallimento del proprio progetto e la crisi del sistema
che su di esso si fondava. Che, se ci pensate, è proprio quello che
il nostro sta facendo da quando ha perso le elezioni, di cui potrà continuare
a considerarsi – come, a quanto pare, si considera – il vincitore morale,
solo se si ostinerà a non leggerne l’evidente messaggio. Perché,
naturalmente, alle elezioni si vince per il numero dei voti, non per il
numero dei voti al Senato o per quello delle regioni economicamente più
sviluppate, e bastano quei pochi, pochissimi Artemidori che hanno dato
il premio di maggioranza all’Unione per decidere la partita. Gli
saranno risparmiate le ventitre pugnalate in Curia, perché con gli anni
le tecniche di espressione del dissenso si sono, in un certo qual senso,
ingentilite, ma il messaggio resta chiaro lo stesso.
Una postilla. Visto che ci siamo, potremmo anche spingerci un pochino
più in là. Il problema, diciamolo pure, non riguarda solo Berlusconi,
anzi, oggi come oggi, non riguarda soprattutto lui. Di una radicata
insofferenza per i messaggi altrui, della incapacità di leggere dei segnali
che pur sono, in sostanza, molto evidenti, di quella che potremmo definire,
con un pizzico di fantasia, la “sindrome di Artemidoro” non soffre soltanto
Silvio. Il male è largamente diffuso e non risparmia i leader, chiamiamoli
così, del centrosinistra, i cui primi comportamenti, appena passata la
paura delle proiezioni, non sembrano esattamente in linea con quelle aspirazioni
di rinnovamento che hanno espresso i loro elettori. Ma va anche detto
che nessun giornalista, per quanto sbrigliata possa essere la sua fantasia,
avrebbe il coraggio di paragonare Prodi a Marco Antonio o a Giulio Cesare
e questo, forse, è un progresso.
07.05.’06