Il grave scritto che reca Artemidoro

La caccia | Trasmessa il: 05/07/2006




Aldo Cazzullo, un giornalista che negli ultimi mesi si deve essere divertito a trattare il Presidente del Consiglio con una disinvoltura che sulle pagine di un giornale paludato come il “Corriere della Sera” di solito non si usa (e deve avere il sospetto che, ormai, la festa stia per finire) in un articolo di mercoledì 3 ricorda a Berlusconi i versi che il grande Kostandinos Kavafis rivolgeva a Marco Antonio sconfitto.  È  un invito, quello del poeta, a non piangere invano la fine del proprio potere, le “opere fallite” e i “disegni delusi”, perché quella musica che il Triumviro, dalle finestre del suo palazzo, sente allontanarsi e svanire nella notte non rappresenta altro che la sua fortuna che se va, o, se volete, il Dio che lo abbandona.  E tale consapevolezza bisogna saper affrontare: “Non ti illudere più, non dire ‘è stato / un sogno’ oppure ‘s’ingannò l’udito’: / non piegare a così vuote speranze. / Come pronto da tempo, come un prode … va risoluto accanto alla finestra; / con emozione ascolta e senza preci, / senza le querimonie degli imbelli, / quasi a fruire di suprema gioia i suoni, / gli strumenti mirabili di quell’arcano tiaso / e saluta Alessandria, che tu perdi”.  Versi bellissimi (mi sono permesso di citarli nella vecchia traduzione di Filippo Maria Pontani, piuttosto che in quella, che mi sembra meno efficace, utilizzata dal giornalista), che tuttavia possono nascondere più di una punta di veleno, visto che Marco Antonio, nella tradizione moralistica antica, non è una figura positiva.  È un po’ il prototipo del mascalzone fortunato, tanto è vero che Plutarco lo mette in coppia addirittura con il terribile Demetrio Poliorcete ed è proprio da Plutarco, pur nella logica di una riabilitazione in extremis, che prende spunto la riflessione del vecchio poeta alessandrino.   Berlusconi, che ha fatto – dice lui – degli ottimi studi classici, si sarà consolato al pensiero che l’allusione era abbastanza criptica, ma non avrà certo avuto motivo per sentirsi toccato il cuore da quelle parole.

       Forse, il quasi ex Presidente avrebbe preferito il paragone con un’altra figura citata dallo stesso autore: il Giulio Cesare di Idi di Marzo, la poesia che nella raccolta canonica delle opere di Kavafis precede immediatamente Il Dio abbandona Antonio.   È vero che al Divo Giulio l’uomo di Arcore non si è mai espressamente riferito, ma lo faceva spesso quel Napoleone cui si è tante volte paragonato e anche per i grandi modelli si può invocare, credo, una sorta di proprietà transitiva.   E non venitemi a dire, naturalmente, che Cesare è stato, se non altro, un grande teorico della politica e Berlusconi non è mai riuscito a capire – con tutte le arie che si dà – la teoria della separazione dei poteri, per cui confonde l’idea del controllo reciproco tra le istituzioni con quella di un equilibrio concordato tra le forze politiche, che, con tutta la buona volontà, proprio non sta in piedi.  Tutto questo è vero, ma non toglie che lui si sarebbe senza dubbio riconosciuto nella scena del grand’uomo che “cospicuo incede per la via col suo corteggio” e si rifiuta di leggere il foglio che gli porge, di tra la folla, “un qualche Artemidoro”, che dice, in fretta: “’Leggi questo subito: / è cosa d’importanza e ti riguarda’”.  Invano il poeta lo esorta a fermarsi, a “differire colloqui e lavori”, a “rimuovere i tanti che al saluto / si prostrano”, di lasciare che “anche il Senato aspetti”, perché in quel “grave scritto”, naturalmente, c’è la denuncia della congiura e leggerlo potrebbe, sì, salvargli la vita, ma solo al prezzo di ammettere  il fallimento del proprio progetto e la crisi del sistema che su di esso si fondava.  Che, se ci pensate, è proprio quello che il nostro sta facendo da quando ha perso le elezioni, di cui potrà continuare a considerarsi – come, a quanto pare, si considera – il vincitore morale, solo se si ostinerà a non leggerne l’evidente messaggio.  Perché, naturalmente, alle elezioni si vince per il numero dei voti, non per il numero dei voti al Senato o per quello delle regioni economicamente più sviluppate, e bastano quei pochi, pochissimi Artemidori che hanno dato il premio di maggioranza all’Unione per decidere la partita.   Gli saranno risparmiate le ventitre pugnalate in Curia, perché con gli anni le tecniche di espressione del dissenso si sono, in un certo qual senso, ingentilite, ma il messaggio resta chiaro lo stesso.


Una postilla.  Visto che ci siamo, potremmo anche spingerci un pochino più in là.  Il problema, diciamolo pure, non riguarda solo Berlusconi, anzi, oggi come oggi, non riguarda soprattutto lui.  Di una radicata insofferenza per i messaggi altrui, della incapacità di leggere dei segnali che pur sono, in sostanza, molto evidenti, di quella che potremmo definire, con un pizzico di fantasia, la “sindrome di Artemidoro” non soffre soltanto Silvio.  Il male è largamente diffuso e non risparmia i leader, chiamiamoli così, del centrosinistra, i cui primi comportamenti, appena passata la paura delle proiezioni, non sembrano esattamente in linea con quelle aspirazioni di rinnovamento che hanno espresso i loro elettori.  Ma va anche detto che nessun giornalista, per quanto sbrigliata possa essere la sua fantasia, avrebbe il coraggio di paragonare Prodi a Marco Antonio o a Giulio Cesare e questo, forse, è un progresso.


07.05.’06