Continuiamo, se non vi dispiace, a fare
un po’ di rassegna stampa. Non so voi, ma io sono stato colpito
da due notizie sui giornali di mercoledì, due notizie in sé non particolarmente
rilevanti, ma tali, se prese congiuntamente, da dare spunto a qualche riflessione.
La prima riguarda l’uscita da San Vittore di Patrizia Cadeddu, che
tutti adesso chiamano, con burocratica precisione, Maria Grazia, ma se
lei preferisce farsi chiamare Patrizia avrà i suoi motivi e non si capisce
perché non darle retta. Si tratta, come ricorderete, della cosiddetta
“postina di Radio Popolare”, cioè della donna accusata di aver recapitato
alla nostra sede di via Stradella la rivendicazione di un attentato (mancato)
a Palazzo Marino, il 25 aprile del ’97. Identificata grazie alla
lettura di una cassetta video che tutti quelli che l’hanno vista assicurano
essere assolutamente illeggibile, era stata condannata, senza uno
straccio di prova, a cinque anni di carcere, poi ridotti a tre anni e nove
mesi in appello. E se li è fatti tutti, giorno dopo giorno, senza
usufruire di sconti, riduzioni o pene alternative di sorta, che è un fatto,
ne converrete, piuttosto inconsueto persino in un sistema penale come il
nostro. I giudici di appello, a suo tempo, le avevano negato persino
la scarcerazione anticipata cui, in seguito alla riduzione della condanna,
avrebbe avuto diritto, perché il suo atteggiamento non era sembrato
loro, in sostanza, abbastanza rispettoso. Figuratevi che aveva continuato
(e continua) a proclamarsi innocente del reato ascrittole, che è una cosa
che in Italia chiunque sia accusato di qualsiasi cosa notoriamente non
deve mai fare, perché in Italia, checché ne dicano Costituzione e codice
di procedura, chi viene accusato di qualcosa è considerato colpevole finché
non si pente e non si mette a collaborare con l’accusa e se non ha niente
di cui pentirsi, o l’accusa non ha bisogno della sua collaborazione, sono
cavoli suoi. Per aver preteso di non adeguarsi a questo modello,
la sciagurata, che oltretutto si prefissava di fede anarchica, era stata
adeguatamente punita.
La
seconda notizia riguarda la deposizione in Corte d’Assise del generale
Gianadelio Maletti, l’ex capo del controspionaggio dei tempi della strategia
della tensione, che ha lasciato il suo esilio di Johannesburg, in Sudafrica,
per venirci a raccontare come dietro le trame e le stragi di quegli
anni bui ci fosse, guarda caso, la mano della CIA: una verità non precisamente
inedita, che i magistrati dell’ultimo processo per piazza Fontana hanno
deciso, adesso, di far approdare anche in sede giudiziaria ed era ora.
Non
venitemi a chiedere, per favore, cosa c’entra il generale Maletti con
Patrizia Cadeddu. Non c’entra nulla, naturalmente. Il fatto
che delle vicende di entrambi si sia data notizia sui giornali lo stesso
giorno è solo una coincidenza. Entrambi sono stati coinvolti –
marginalmente – in oscure faccende di bombe, ed entrambi ne hanno subito
qualche conseguenza penale, ma lei, ormai, è una ex galeotta, mentre lui
in galera non ci ha mai messo piede nemmeno per sbaglio. Le sue condanne
le ha rimediate anche lui, per un totale, salvo errore, di trentun anni
di carcere, quattordici dei quali in via definitiva, ma non ne ha mai scontato
un giorno che fosse uno. E continuerà, suppongo, a non scontarne,
perché, pur di farlo deporre, gli hanno concesso, per la prima volta nella
storia giudiziaria del paese, un apposito salvacondotto che gli ha permesso
di schivare qualsiasi mandato di cattura e di ritornarsene bello e tranquillo
in Sudafrica.
Tutto
qui. È solo di una coincidenza, anche se ammetterete anche voi che come
coincidenza è abbastanza strana. In fondo, entrambi i personaggi
sono stati debitamente condannati da uno o più tribunali della repubblica.
Il loro diverso destino penale farebbe supporre nella giustizia italiana
uno strano atteggiamento bifronte, la capacità di esibire, da un lato la
più inflessibile severità e di ostentare dall’altro la flessibilità più
accomodante. Certo, i due casi sono diversi, perché sono diverse
le logiche giudiziarie che vi presiedono e poi c’è una bella differenza,
ve lo concedo, tra un’anarchica abbastanza smandrappata, usa a frequentare
i centri sociali e altri ambienti disdicevoli, e un generale dei servizi,
sia pure un po’ troppo corrivo rispetto alle attività di certi alleati
e un po’ troppo propenso a depistare, costi quel che costi, le indagini
che potrebbero coinvolgerli. Ma visto che la legge dovrebbe essere
uguale per tutti, la circostanza che all’una siano stati negati i benefici
di legge, mentre all’altro sia stato concesso un salvacondotto per risparmiargli
una trentina di anni di detenzione resta un fatto che dimostra, se pure
ce ne fosse bisogno, come nel nostro modo di fare “giustizia” (con le
virgolette, mi raccomando, non dimentichiamo mai le virgolette) c’è proprio
qualcosa di strano.
Carlo Oliva, 25.03.’01