Il dottor Ratz e Mister Inger

La caccia | Trasmessa il: 06/03/2012


    Il dottor Ratz e Mister Inger

    Il papa che in questo fine settimana onora (e sconvolge) la nostra città con la sua visita, si può descrivere, dando all'espressione un puro valore classificatorio, come un tipico “papa di massa”, uno di quei pontefici, cioè, che esercitano soprattutto la loro funzione – che manifestano, diciamo, la propria papitudine – quando sono al centro di grandi eventi appunto di massa, con la partecipazione diretta di migliaia e migliaia di fedeli e l'assidua copertura dei mezzi di comunicazione. È un modello, questo, ormai universalmente affermato, al punto che non si può concepire un pontefice che non vi ci si attenga, ma è abbastanza recente: risale, grosso modo, alla metà del secolo scorso e gli osservatori della mia generazione hanno avuto modo da seguirne l'intero sviluppo, dal “discorso della luna” pronunciato da Giovanni XXIII in diretta televisiva verso la fine del suo pontificato, ai viaggi in Terra Santa, in India e in America di Paolo VI, ai bagni di folla che hanno caratterizzato ogni spostamento e ogni apparizione di papa Wojtyla, colui che, senza dubbio, da questo rapporto personale e diretto con le masse adoranti dei fedeli e dei pellegrini ha saputo trarre i risultati più egregi, moltiplicando all'infinito il suo carisma e ponendosi tra i protagonisti assoluti sulla scena mondiale. Prima di allora, anche per mancanza di un'appropriata tecnologia di comunicazione, la persona del papa era, per quasi tutti i fedeli, una figura remota, da venerare e obbedire a distanza e le sue parole giungevano alla gente comune mediate attraverso la gerarchia. Ci sono stati papi eremiti, papi studiosi, papi guerrieri, papi santi e papi cortigiani, ma queste caratteristiche non erano di pubblico, comune dominio. Soltanto i fedeli di Roma, che lo vedevano passare nelle strade cittadine sulla sedia gestatoria e avevano il privilegio di accedere alle informazioni sulla sua vita quotidiana che inevitabilmente filtravano, spesso sotto forma di pettegolezzo, dai Sacri Palazzi, potevano vantare un rapporto di familiarità con quello che, dopotutto, era il loro vescovo. Oggi che a tutti è dato osservare da vicino, in televisione, i lineamenti del successore di Pietro e ascoltarne la voce, quel rapporto speciale, paradossalmente, non c'è più: la sua ultima manifestazione, forse, risale a quando Pio XII scese di persona nelle strade di Roma bombardata il 19 luglio del 1943. Allora, naturalmente, la televisione non c'era e soltanto pochi spezzoni di cinegiornale restano a testimoniare l'evento.
    L'attuale pontefice, comunque, non si è calato nella parte con la disinvoltura del suo predecessore: è un uomo, da quanto è dato capire, per natura più riservato, più schivo del contatto diretto con il pubblico. Non è difficile leggere nel suo linguaggio corporeo un certo disagio quando si tratta di affrontare delle situazioni di questo tipo ed è chiaro che si troverebbe molto più a suo agio nel suo studio. Tuttavia, fa bravamente del suo meglio. Qui a Milano, come in tutte le occasioni precedenti, se la sta cavando in modo egregio. Ha capito che il suo ruolo, nella moderna società dello spettacolo, è appunto un ruolo spettacolare, che a queste sacre comparsate, per quanto modesto sia il loro contenuto in termini teorici e intellettuali – nel senso che un incontro mondiale delle famiglie o un meeting della gioventù non hanno molto più valore teologico di un Jamboree degli scout – è affidata la continuità del suo ruolo esclusivo. Oggi il papa o è di massa o non è: di eremiti, studiosi, cortigiani e guerrieri la chiesa dei nostri tempi evidentemente non ha bisogno.
    Stupisce, a questo punto, il contrasto tra una simile esibizione di modernità, a questa full immersion nel contemporaneo, e quanto si è venuto a sapere sulle pratiche correnti in sede di amministrazione centrale della chiesa, un campo al quale sembra che il nostro Benedetto, a differenza del suo predecessore, non sia particolarmente interessato. Abbiamo scoperto l'esistenza, in Vaticano, di una piccola corte di tipo medioevale, con tutto il suo corredo di intrighi, correnti, favoriti, eminenze grige e “anime dannate”, come in un brutto romanzo di cappa e spada. Nello stesso appartamento pontificio si aggirano “corvi” e maggiordomi infedeli, intenti a trafugare e diffondere documenti riservati e carte segrete, senza che il principale, che pure ha le prerogative e i poteri di un sovrano assoluto, non ci possa far niente. Quale sia l'oggetto del contendere di questi intrighi di palazzo, dai commenti di stampa e dallo stesso volume che li ha suscitati non è veramente dato comprendere, né, in fondo, a noi laici veramente interessa: è probabile, come spesso succede, che si tratti di un problema di soldi e di potere, e specificamente del potere di gestire i soldi, un potere all'attrazione del quale non c'è cotta cardinalizia o mitra vescovile che possa resistere. Quello che è certo che il povero Ratzinger, di fronte a tutto questo casino, rivela una curiosa conformazione alla Jekyll and Hyde: lui che, da prefetto della congregazione della dottrina della fede sembrava così risoluto, una volta assurto al sacro soglio si è rivelato più incerto e malleabile di quanto ci si sarebbe aspettato, dando spazio a tutti coloro che, alle sue spalle, agitano i propri personali progetti. E così, dalla modernità esibita dei suoi incontri di massa, gli tocca precipitare negli intrighi medioevali della sua piccola corte. Poveruomo: alla sua età dev'essere davvero stressante. È anche vero che farsi eleggere papa non è obbligatorio e chi è causa del proprio male non può che accusare se stesso.



    Ah. Permettetemi una chiosa alla quale, come esperto riconosciuto di letteratura poliziesca non posso sottrarmi. È stato detto, dopo l'arresto dell'“assistente di camera” Paolo Gabriele, che come in tutti i gialli che si rispettano si era scoperto come il colpevole fosse il maggiordomo. Be', chi ci sia dietro tutta la faccenda io non lo so, ma è poco ma sicuro che in tutti i gialli che si rispettano il colpevole non è né può essere il maggiordomo. Attribuire la responsabilità finale del crimine a quel rispettabile professionista sarebbe una soluzione, al tempo stesso, troppo facile e troppo macchinosa, di quelle che un autore degno di questo nome e ligio alle tradizioni del genere non si permetterebbe mai di adottare. Di fatto, tra le molte migliaia di gialli che ho letto in vita mia, non ne ricordo uno solo che risolva in quel senso l'enigma proposto all'investigatore e ai lettori. E siccome la vita, notoriamente, imita l'arte, sono pronto a scommettere che l'identità effettiva del “corvo” sia ancora tutta da scoprire. È un peccato, soltanto, che quando lo troveranno non ce lo diranno mai.