Il dissoluto incapace

La caccia | Trasmessa il: 12/11/2011


    Il dissoluto incapace

    Non so quanti, tra i milanesi o presunti tali che mercoledì 7 hanno partecipato, in varie forme e in vari luoghi, alla “prima allargata” della Scala, stringendosi idealmente intorno al presidente Napolitano e al professor Monti, che con la loro presenza restituivano finalmente all'evento quella dignità civica di cui era stato, negli scorsi anni, spogliato, non so dunque quanti di loro si siano resi conto che il don Giovanni di Mozart e Da Ponte non è, nonostante tutto, un gaio seduttore, né, a onta del sottotitolo, un “dissoluto punito”, ma un povero sfigato che con le donne non sa assolutamente come muoversi. È vero che la regia di Robert Carsen, a quanto ho letto, fa di tutto per non farlo capire, e poi – naturalmente – bisogna tener conto dei duemilasessantacinque precedenti citati da Leporello nel celebre catalogo, ma è un fatto che quando il protagonista entra in scena, con donna Anna, quella che insegue è lei, e lui sta scappando (e anche prima, stando al racconto della interessata, non aveva combinato granché), che a sedurre Zerlina ci prova due volte e in entrambi i casi gli va clamorosamente buca, che il suo progetto di folleggiare un po' alla festa di nozze viene frustrato dall'inopinata comparsa del terzetto delle maschere guidate da un don Ottavio armato di pistola, che per farsi notare dalla cameriera di donna Elvira canta una bellissima serenata accompagnandosi con il mandolino, ma si ferma lì, anche perché sopraggiungono sul più bello Masetto e i suoi scherani e che, in definitiva, nonostante tutte le arie che si dà, alla fine non combina niente di sostanzioso. Anche dell'avventura di cui si vanta con Leporello nel secondo atto, di fronte alla statua ancora silenziosa del Commendatore, siamo autorizzati a dubitare: è vero che, sotto mentite spoglie, ha incontrato una qualche sprovveduta disposta a scambiarlo per il proprio bello e che, dice lui, dell'inganno ha saputo approfittare, ma subito dopo, non si sa come, lei lo riconosce, grida, chiede aiuto, accorre gente e il nobile cavaliere è costretto una volta di più a darsela a gambe e cercare rifugio nel recinto del cimitero: difficile che, in questo concatenamento di circostanze, sia riuscito a consumare una seduzione qualsiasi. Insomma, la vecchia storia che Tirso da Molina aveva concepito come allegoria catechistica dello stato del peccatore che rischia sempre di ritrovarsi al passo estremo in peccato mortale, con conseguente, immediato trasferimento all'inferno, che la commedia dell'arte aveva rivissuto in termini più ridanciani e disinibiti (il catalogo...) e che Molière aveva genialmente reinterpretato in termini di polemica contro la morale ricevuta e le ipocrisie perbeniste, diventa, nelle mani di Mozart e Da Ponte, una riflessione sulla impossibilità di raggiungere i propri fini. Sarà stato perché il sesso nella società dei lumi contava meno di quanto succedeva prima e sarebbe successo dopo e non era considerato né il peccato per eccellenza, quello che ti assicurava gli abissi infernali senza possibilità di sconto, né quella faccenda confusamente spirituale che, mescolando un po' le carte, vi avrebbe visto il romanticismo, o semplicemente perché entrambi gli autori cercavano soprattutto di distinguersi dalla miriade di dongiovanni che ai loro tempi affollavano le scene, ma è poco ma sicuro che nella loro interpretazione il grande libertino è, in buona sostanza, un frigido, uno che delle donne, al massimo, fa conquista per piacer di porle in lista, ma che quando si giunge al dunque, quando – aggiungerei – è costretto a venire al dunque, se non altro per dovere di immagine, finisce per combinare una quantità di pasticci. Il risultato, dal punto di vista drammatico, è straordinario: il personaggio perde ogni dimensione mitica o allegorica e si ritrova di colpo umano tra gli umani, costretto a fare i conti con il divario tra la le proprie pretese, la considerazione che ha di se stesso, e i risultati che ottiene sul piano concreto. Da questo punto di vista, l'arrivo finale del Convitato di Pietra può rappresentare soprattutto un sollievo.
    Per tornare alla prima di mercoledì scorso, sembra che il Don Giovanni, nonostante le bizzarrie del regista e le debolezze vocali di alcuni dei protagonisti, abbia fatto colpo. In questo dramma del desiderio inappagato, del fallimento (per colpa propria o altrui, non importa) delle strategie messe in opera per soddisfarlo, i nostri concittadini si sono, a quanto pare, riconosciuti. Magari senza identificarsi con il protagonista – che è stato debitamente criticato dal sindaco sotto il profilo morale e non è piaciuto, sembra, neanche al pio Formigoni – e forse senza rendersi conto del fatto che, come succede spesso con i classici, la vicenda li riguardava più da vicino di quanto ciascuno non si azzardasse a pensare. Perché la storia di don Giovanni, come è uscita dalla collaborazione tra l'inquieto abatino di Vittorio Veneto e il genio musicale di Salisburgo, non è più semplicemente la storia di un peccatore punito o di un gaudente deluso, ma verte tutta sulla problematica del fallimento e del redde rationem, riguardino essi la vita privata di ciascuno di noi o le vicende del paese tutto. Forse anche gli occupanti del palco reale, presidenti e ministri e quant'altro, vedendo improvvisamente materializzarsi in mezzo a loro la figura insanguinata del Commendatore, si saranno resi conto di come tutte le “manovre” così faticosamente elaborate in questi giorni fossero comunque a rischio di immediata e brutale demistificazione e senza neanche la necessità di far comparire alla bisogna un'anima dell'oltretomba.
    Certo, don Giovanni è un eroe (come credo lo abbia definito Baudelaire in una delle Fleurs du mal), ma il suo eroismo è di natura soprattutto estetica, consiste nella fermezza con la quale, quando tutto è consumato, affronta il proprio destino senza suppliche o pentimenti. Per questa sua superiorità, l'unica che Mozart e Da Ponte gli potessero concedere ai tempi loro, noi, figli di un'epoca e di una società in cui allignano lagnosità e recriminazioni senza fine, non possiamo che ammirarlo. Ma, naturalmente, sono felici i paesi che non hanno bisogno di eroi.

    11.12.'11


    Nota

    Per Baudelaire, cfr. Don Juan aux Enfers, Les Fleurs du mal, XV (Oeuvres complètes, Bibliotheque de la Pléiade, Gallimard, Paris1961, p. 18)