Credo sia stato il sindaco Albertini,
con la consueta finezza politica, a osservare, tempo fa, che, una volta
riconciliatisi il Polo e la Lega, la nuova coalizione avrebbe potuto far
eleggere al suo posto chiunque, anche il cuoco di Berlusconi. La
battuta, suppongo, voleva esprimere una sorta di (autoironico) understatement,
anche se, naturalmente, spiritosaggini del genere possono fiorire solo
sulle labbra di chi sia convinto, sotto sotto, che per aspirare a certe
cariche pubbliche sia necessario godere di uno status sociale superiore
di quello che ai cuochi viene comunemente riconosciuto, per cui l’ipotesi
di eleggerne uno sindaco di una grande città va considerata soltanto un
simpatico paradosso. Ma visto che infinite sono le vie del destino,
può darsi – chissà – che proprio pensando a quella facezia di una persona
che stima il leader di Forza Italia abbia deciso di inserire un cuoco in
uno dei suoi ormai leggendari manifesti di propaganda. Alludo ai
manifesti della seconda serie, quelli in cui, pur in assenza dell’effigie
del capo, un certo numero di cittadini dall’aria simpatica spiegano perché
hanno deciso, contenti loro, di votare per il Silvio nazionale. Il
cuoco di cui stiamo parlando, naturalmente, non vi figura da solo, perché
a tutto c’è un limite, né si esibisce in coppia, come i due arzilli vecchietti
che ambiscono a pensioni più dignitose, o in piccolo gruppo, come i membri
della famigliola felice che desidera città più sicure, ma ha una sua onorevole
posizione in una scena quasi di massa. Compare proprio al centro,
come il professore di lettere in una vecchia foto del liceo, tra tutti
quegli onesti e sorridenti prestatori d’opera che dell’uomo di Arcore
apprezzano soprattutto la capacità di creare lavoro.
Be’,
tutto in bianco, con il suo bravo cappello a tubo, il nostro cuoco tra
tanti professionisti non sfigura affatto. Si capisce che è lì per rappresentare
un settore importante della forza lavoro, allo stesso titolo della dozzina
di altri personaggi che gli stanno attorno, e svolge con dignità questo
compito. E non si vede, veramente, come mai, a differenza dei suoi
colleghi di immagine, non riesca a esibire un sorriso davvero radioso.
Perché guardate meglio quel manifesto, la prossima volta che vi capiterà
di passarci davanti, e vedrete anche voi che quell’artista dei fornelli
sorride sì, ma sorride, come potrei dire, un po’ storto. Che il
lampeggiare dei suoi pur bianchissimi denti configura una specie di smorfia,
che esprime, più che l’esultanza e la fiducia nel futuro che ci attende,
quella che illumina lo sguardo dei suoi compagni, una specie di rassegnata
perplessità.
Chissà,
mi sono chiesto, forse quel cuoco ha dei problemi personali. O forse,
può succedere, non è contento del suo lavoro. Forse è stanco di avere
a che fare con marmitte e friggitrici e preferirebbe suonare il flauto,
come quella bella ragazza dai capelli rossi all’estrema sinistra del gruppo.
O non gli spiacerebbe esercitare la medicina, come la biondina in
camice che le sta accanto. O magari le sue ambizioni sono più modeste
e pur di evadere dalla cucina si accontenterebbe di lavorare in una fabbrica
o in un cantiere, come quel giovanotto in seconda fila che esibisce con
orgoglio ed eleganza, a nome di tutta la classe operaia, il suo caschetto
di plastica rossa. Oppure, chi lo sa, il bianco della sua uniforme
gli è venuto a noia, e lo cambierebbe volentieri con il nero di quella
del baffuto agente di sicurezza privata che nel manifesto ha la delega
per rappresentare tutti i corpi, militari o non militari, in divisa. Insomma,
forse vorrebbe essere qualcosa d’altro da quel che è, che è un’esigenza
legittima e accettabile sotto qualsiasi governo.
Queste,
naturalmente, sono tutte mie fantasie, perché quel cuoco, anche se sorride
davvero un po’ storto, ovviamente un vero cuoco non è. Come la flautista,
la dottoressa, l’operaio, la guardia giurata, la donna con il bambino,
il bambino in braccio alla donna e tutti gli altri personaggi che figurano
sul manifesto è, in realtà, un modello, qualcosa di non molto diverso da
un attore che interpreta una certa parte. Ma non è colpa mia, lo
ammetterete, se chi ha assegnato le parti a quei modelli ha scelto, per
dar vita all’immagine del cuoco, un professionista con quelle specifiche
caratteristiche fisiognomiche.
Perché
il cuoco di Berlusconi, ve ne sarete accorti, è nero. Non nerissimo,
non color ebano, ma scurotto di pelle certamente sì, a significare una
provenienza, come pudicamente si dice, extracomunitaria. E anche
se sono certissimo che anche tra gli extracomunitari non mancano i lavoratori
che sarebbero lieti di votare, se potessero votare, per Berlusconi, non
posso fare a meno di chiedermi perché mai per quella parte si sia scelto
quel professionista. Non venitemi a dire che lo hanno fatto per motivi
cromatici, nel senso che il colore della pelle risalta bene, per contrasto,
con il bianco dell’uniforme: sarò diffidente, ma proprio non ci credo.
Anche la dottoressa bionda porta un camice bianco e le sta benissimo.
È più verosimile supporre che un certo numero di dirigenti e un certo
numero di elettori di quella parte politica (non tutti, credo) condividano,
nel loro intimo, la convinzione che agli extracomunitari si addicano certi
lavori e non certi altri e pensino che il loro posto non sia esattamente
negli studi medici, nelle orchestre sinfoniche o nei corpi in divisa. Stiano
in cucina, come i loro omologhi dei tempi di Via col vento, e ringrazino
il cielo che da noi non ci sono le piantagioni di cotone.
Naturalmente
chi ha delle convinzioni del genere di solito non le dichiara. Sa
che, secondo il quadro valori normalmente accreditato, sono disdicevoli.
Ma per trarne il vantaggio che se ne può trarre, perché di gente
che le condivide in giro ce n’è più di quanto si creda, e a votare quelli
ci vanno tutti, bisogna ben manifestarle in qualche modo. Onde la
scelta in questione, sulla quale, oltretutto, nessuno può avere niente
da eccepire, perché quello del cuoco è un mestiere rispettabilissimo e
il fatto di esibire un nero in un gruppo di lavoratori può essere fatto
passare persino per una manifestazione di tolleranza e apertura, come a
dire il contrario di quello che abbiamo supposto fin qui. Non per
niente in qualsiasi telefilm americano di ambiente ospedaliero c’è sempre
un medico nero, né un giudice nero manca mai all’appello in un telefilm
giudiziario e si tratta sempre di personaggi seri, positivi, aureolati
da una certa aria di distinzione. Ma qui siamo in Italia, e in Italia,
che volete che vi dica, se un cuoco va bene e un nero va benissimo, un
cuoco nero non può che indirizzare i pensieri in un certo senso. A
espedienti retorici del genere, temo, dovremmo imparare ad abituarci.
C. Oliva, 01.04.’01