Il cuoco di Berlusconi

La caccia | Trasmessa il: 04/01/2001



Credo sia stato il sindaco Albertini, con la consueta finezza politica, a osservare, tempo fa, che, una volta riconciliatisi il Polo e la Lega, la nuova coalizione avrebbe potuto far eleggere al suo posto chiunque, anche il cuoco di Berlusconi.  La battuta, suppongo, voleva esprimere una sorta di (autoironico) understatement, anche se, naturalmente, spiritosaggini del genere possono fiorire solo sulle labbra di chi sia convinto, sotto sotto, che per aspirare a certe cariche pubbliche sia necessario godere di uno status sociale superiore di quello che ai cuochi viene comunemente riconosciuto, per cui l’ipotesi di eleggerne uno sindaco di una grande città va considerata soltanto un simpatico paradosso.  Ma visto che infinite sono le vie del destino, può darsi – chissà – che proprio pensando a quella facezia di una persona che stima il leader di Forza Italia abbia deciso di inserire un cuoco in uno dei suoi ormai leggendari manifesti di propaganda.  Alludo ai manifesti della seconda serie, quelli in cui, pur in assenza dell’effigie del capo, un certo numero di cittadini dall’aria simpatica spiegano perché hanno deciso, contenti loro, di votare per il Silvio nazionale.  Il cuoco di cui stiamo parlando, naturalmente, non vi figura da solo, perché a tutto c’è un limite, né si esibisce in coppia, come i due arzilli vecchietti che ambiscono a pensioni più dignitose, o in piccolo gruppo, come i membri della famigliola felice che desidera città più sicure, ma ha una sua onorevole posizione in una scena quasi di massa.  Compare proprio al centro, come il professore di lettere in una vecchia foto del liceo, tra tutti quegli onesti e sorridenti prestatori d’opera che dell’uomo di Arcore apprezzano soprattutto la capacità di creare lavoro.
        Be’, tutto in bianco, con il suo bravo cappello a tubo, il nostro cuoco tra tanti professionisti non sfigura affatto. Si capisce che è lì per rappresentare un settore importante della forza lavoro, allo stesso titolo della dozzina di altri personaggi che gli stanno attorno, e svolge con dignità questo compito.  E non si vede, veramente, come mai, a differenza dei suoi colleghi di immagine, non riesca a esibire un sorriso davvero radioso.  Perché guardate meglio quel manifesto, la prossima volta che vi capiterà di passarci davanti, e vedrete anche voi che quell’artista dei fornelli sorride sì, ma sorride, come potrei dire, un po’ storto.  Che il lampeggiare dei suoi pur bianchissimi denti configura una specie di smorfia, che esprime, più che l’esultanza e la fiducia nel futuro che ci attende, quella che illumina lo sguardo dei suoi compagni, una specie di rassegnata perplessità.
        Chissà, mi sono chiesto, forse quel cuoco ha dei problemi personali.  O forse, può succedere, non è contento del suo lavoro.  Forse è stanco di avere a che fare con marmitte e friggitrici e preferirebbe suonare il flauto, come quella bella ragazza dai capelli rossi all’estrema sinistra del gruppo.  O non gli spiacerebbe esercitare la medicina, come la biondina in camice che le sta accanto.  O magari le sue ambizioni sono più modeste e pur di evadere dalla cucina si accontenterebbe di lavorare in una fabbrica o in un cantiere, come quel giovanotto in seconda fila che esibisce con orgoglio ed eleganza, a nome di tutta la classe operaia, il suo caschetto di plastica rossa.  Oppure, chi lo sa, il bianco della sua uniforme gli è venuto a noia, e lo cambierebbe volentieri con il nero di quella del baffuto agente di sicurezza privata che nel manifesto ha la delega per rappresentare tutti i corpi, militari o non militari, in divisa.  Insomma, forse vorrebbe essere qualcosa d’altro da quel che è, che è un’esigenza legittima e accettabile sotto qualsiasi governo.
        Queste, naturalmente, sono tutte mie fantasie, perché quel cuoco, anche se sorride davvero un po’ storto, ovviamente un vero cuoco non è.  Come la flautista, la dottoressa, l’operaio, la guardia giurata, la donna con il bambino, il bambino in braccio alla donna e tutti gli altri personaggi che figurano sul manifesto è, in realtà, un modello, qualcosa di non molto diverso da un attore che interpreta una certa parte.  Ma non è colpa mia, lo ammetterete, se chi ha assegnato le parti a quei modelli ha scelto, per dar vita all’immagine del cuoco, un professionista con quelle specifiche caratteristiche fisiognomiche.
        Perché il cuoco di Berlusconi, ve ne sarete accorti, è nero.  Non nerissimo, non color ebano, ma scurotto di pelle certamente sì, a significare una provenienza, come pudicamente si dice, extracomunitaria.  E anche se sono certissimo che anche tra gli extracomunitari non mancano i lavoratori che sarebbero lieti di votare, se potessero votare, per Berlusconi, non posso fare a meno di chiedermi perché mai per quella parte si sia scelto quel professionista.  Non venitemi a dire che lo hanno fatto per motivi cromatici, nel senso che il colore della pelle risalta bene, per contrasto, con il bianco dell’uniforme: sarò diffidente, ma proprio non ci credo.  Anche la dottoressa bionda porta un camice bianco e le sta benissimo.  È più verosimile supporre che un certo numero di dirigenti e un certo numero di elettori di quella parte politica (non tutti, credo) condividano, nel loro intimo, la convinzione che agli extracomunitari si addicano certi lavori e non certi altri e pensino che il loro posto non sia esattamente negli studi medici, nelle orchestre sinfoniche o nei corpi in divisa.  Stiano in cucina, come i loro omologhi dei tempi di Via col vento, e ringrazino il cielo che da noi non ci sono le piantagioni di cotone.
        Naturalmente chi ha delle convinzioni del genere di solito non le dichiara.  Sa che, secondo il quadro valori normalmente accreditato, sono disdicevoli.  Ma per trarne il vantaggio che se ne può trarre, perché di gente che le condivide in giro ce n’è più di quanto si creda, e a votare quelli ci vanno tutti, bisogna ben manifestarle in qualche modo.   Onde la scelta in questione, sulla quale, oltretutto, nessuno può avere niente da eccepire, perché quello del cuoco è un mestiere rispettabilissimo e il fatto di esibire un nero in un gruppo di lavoratori può essere fatto passare persino per una manifestazione di tolleranza e apertura, come a dire il contrario di quello che abbiamo supposto fin qui.  Non per niente in qualsiasi telefilm americano di ambiente ospedaliero c’è sempre un medico nero, né un giudice nero manca mai all’appello in un telefilm giudiziario e si tratta sempre di personaggi seri, positivi, aureolati da una certa aria di distinzione.  Ma qui siamo in Italia, e in Italia, che volete che vi dica, se un cuoco va bene e un nero va benissimo, un cuoco nero non può che indirizzare i pensieri in un certo senso.  A espedienti retorici del genere, temo, dovremmo imparare ad abituarci.

C. Oliva, 01.04.’01