Il compleanno del sole

La caccia | Trasmessa il: 12/24/2000



Il 25 dicembre, come suppongo sappiate, ricorre un’antica celebrazione pagana: il giorno natalizio (dies natalis, in latino) del Sole Invitto.  È una data simbolica, la cui scelta deve avere evidentemente qualche rapporto con la prossimità del solstizio d’inverno, quando il sole, dopo aver toccato il minimo di presenza apparente nei nostri cieli, ricomincia in crescendo la sua vicenda astronomica, come se, in un certo senso, nascesse.  Un tempo in tutte le città di Oriente e Occidente i fedeli affollavano i luoghi di culto (quello di Roma era nel campus Agrippae,)  per implorare dal Sole pace e benessere.  Ed era – badate – una solennità di grande importanza, perché il Sol Invictus, che originariamente era soltanto il modesto nume tribale di un’oscura tribù nabatea e solo in seguito era assurto al rango di divinità cittadina di Emesa, in Siria, aveva fatto, per così dire, carriera, se di carriera, nel caso di un dio, si può correttamente parlare.  Portato a Roma da quel Vario Avito Bassiano che preferiva farsi chiamare con il nome siriaco di Elagabalo ed era appunto di Emesa, era stato poi proclamato, a opera dell’imperatore Aureliano, che con la Siria non aveva nulla a che fare, ma era alla disperata ricerca di una divinità in cui si potessero riconoscere tutti i sudditi del suo variegato dominio, sommo protettore dell’Impero nel suo complesso.  Questo ruolo gli sarebbe stato tolto, una cinquantina di anni dopo, da Costantino il Grande, ma anche costui non avrebbe avuto il coraggio di fare a meno del tutto della protezione del dio di Emesa, tanto è vero che sulle sue insegne non compariva, come comunemente si crede, la croce, ma il “chi-rho”, il monogramma in cui le due lettere iniziali del nome del Cristo sono combinate in modo di inscriversi quasi naturalmente in un disco che ricorda alquanto quello solare.
        Del Cristianesimo, in effetti, il culto del Sole Invitto è stato non solo il più immediato precedente, ma il più pericoloso rivale: lo scontro che Costantino era riuscito a evitare si sarebbe avuto pochi decenni più tardi, in forme particolarmente aspre, sotto il regno di quel Giuliano che i vincitori avrebbero, poco sportivamente, bollato come l’Apostata.  Le due religioni, del resto, provenivano dalla stessa area culturale, condividevano, almeno all’origine, la stessa teologia di marca neoplatonica e, con ogni probabilità, davano voce a esigenze assai simili.   Tanto è vero che se, come spesso succede, il culto vincitore si è impiantato parassitariamente sulle ricorrenze e nei rituali di quello sconfitto, va detto che con ciò stesso gli ha garantito una qualche forma di sopravvivenza.  Ancor oggi noi illuminiamo a giorno le nostre città e adorniamo di barlafussi luccicanti le fronde degli alberi sempreverdi per affermare, nei giorni più brevi e più bui dell’anno, la fiducia nella prossima ricomparsa di quella Luce che sembrava prossima a venir meno.
        Naturalmente le nostre conoscenza dell’astronomia sono sufficienti, in questa fase della storia della cultura, a garantirci che le giornate ritorneranno ad allungarsi senza necessità di preghiere o sacrifici propiziatori da parte nostra.  Ma questo, in fondo, lo sapevano benissimo anche i Romani.   Il bello delle metafore religiose sta proprio nella loro disponibilità a farsi continuamente riciclare, nella loro capacità di offrire ai devoti (e, quanto a questo, anche agli scettici) l’occasione di celebrare, nelle varie fasi storiche, i valori che di volta in volta decidono di celebrare.
Personalmente – vi dirò – non ho la minima idea di quali fossero le speranze e le aspettative cui si abbandonavano, con l’approssimarsi del loro 25 dicembre, i seguaci del Sole Invitto.  Forse anche loro non desideravano altro che essere lasciati in pace a farsi i fatti propri e consideravano tutta quella storia dei sacrifici, delle luminarie, delle pubbliche invocazioni per la salute dell’imperatore e la prosperità dell’impero e via andare una gran rottura di scatole.  In fondo, di una religione istituita con decreto imperiale e di un culto i cui zelatori coincidevano, in pratica, con le autorità politiche e militari si poteva avere qualche ragione di diffidare.  Ma forse anche loro riuscivano a ritagliarsi tra un obbligo sociale e l’altro un minimo spazio di riposo e di intimità per sé e per i propri cari.  In fondo, l’obbedienza dovuta all’imperatore e il timore delle orde barbariche incombenti dovevano essere ben poca cosa rispetto al peso del mercato globale e dell’effetto serra.
Forse, quelli che hanno bisogno di qualche sacrificio propiziatorio, siamo proprio noi.

24.12.’00