Domenica scorsa, come avrete senz’altro
capito, non ero in diretta. Avevo affidato un paio di registrazioni
all’Accame e me n’ero andato alla marcia Perugia Assisi. Una decisione,
ve lo assicuro, piuttosto sofferta, e non certo perché dubitassi della
capacità dell’amico Felice di reggere la trasmissione da solo, senza incertezze
né solecismi. I miei dubbi erano gli stessi di tantissimi altri.
Da un lato ci si presentava l’occasione di far capire a chi di dovere
che in questo paese non abbiamo perso tutti la testa, e che esistono ancora
dei cittadini normali convinti che non si risolve il problema del terrorismo
internazionale con i bombardamenti a tappeto, e, dall’altro, incombeva
a fastidiosa consapevolezza che a quell’iniziativa, ormai un po’ troppo
istituzionalizzata, avrebbe partecipato, per puro opportunismo, una quantità
di figuri sulla cui dedizione alla causa della pace era lecito nutrire
ogni dubbio e con i quali nessun pacifista ragionevole avrebbe desiderato
venire confuso nemmeno da morto. Ma alla fine, come tantissimi altri,
ho scelto il primo corno del dilemma e non ho avuto motivo di pentirmene.
Di opportunisti sul percorso Perugia Assisi se ne sono visti parecchi,
ma nessuno è riuscito a mettere il cappello sulla manifestazione, che ha
mantenuto, nel complesso, quello straordinario carattere spontaneo e di
massa che tutti gli osservatori in buonafede le hanno riconosciuto. Certo,
è stata una faticaccia farsi quella camminata sotto il sole rovente, in
una situazione di disorganizzazione pazzesca, tra la manifesta ostilità
dei residenti e l’indifferenza infastidita delle strutture pubbliche,
ma ce l’abbiamo fatta e speriamo che a qualcosa sia servito.
Io, vi dirò, ho concluso l’impresa
malconcio sul piano fisico, ma abbastanza soddisfatto. E non solo
perché ero riuscito alla mia età, ad arrivare da Ponte San Giovanni, subito
dopo Perugia, a Santa Maria degli Angeli, un po’ prima di Assisi, che
non è un affatto un percorso da poco. Ma perché per strada mi era
balenato il sospetto che, forse, chissà, da quella assurda macedonia di
militanti sciupacchiati, famigliole festose, volontari assortiti, boy scout,
penitenti, anarchici, donne in nero e chissà che altro avrebbe potuto anche
uscire qualcosa di politicamente imprevisto. E di un po’ di imprevisto,
in questa età di assoluta, bipartigiana prevedibilità al governo e all’opposizione,
sentivo (e sento) davvero parecchio bisogno.
E poi c’era anche di che divertirsi.
Era divertente starsene lì, pur bloccato com’ero tra un gruppo di
curdi particolarmente chiassosi e un cordone di inesausti sbandieratori
di Rifondazione, a guardare quella massa variegata di uomini e donne che
marciavano, cantavano, danzavano, estraevano il telefonino, formavano un
numero, riponevano l’apparecchio scuotendo la testa, scandivano un paio
di slogan, intonavano una canzone, riprendevano il telefonino, rifacevano
il numero, non ottenevano evidentemente risposta, si guardavano attorno
con aria perplessa, sventolavano le loro bandiere, ripescavano l’apparecchio,
rifacevano il numero e così via, chilometro dopo chilometro. Per
uno studioso di problemi della comunicazione, era un’occasione straordinaria
di analisi e studio sul campo.
Già, perché tra i protagonisti non umani
della marcia, al telefonino è toccato una posizione di assoluto primo piano.
Era ovvio, d’altronde. A un’iniziativa del genere si arriva,
per forza di cose, in gruppi dispersi, ma desiderosi di incontrarsi. Gli
amici giungono ciascuno per conto suo, con diversi mezzi di trasporto e
in diversi orari, a seconda degli impegni e delle opportunità. Come
si fa a ritrovarsi, allora? Be’, ci si dà un colpo di telefonino.
I responsabili dei vari gruppi hanno il problema di ritrovare, a
marcia finita, i pullman che riporteranno i loro pupilli a destinazione:
non sanno dove saranno posteggiati, perché nessuno si è dato pena di organizzare
un sistema razionale di parcheggi, ma non se ne preoccupano, perché potranno
sempre chiamare l’autista al telefonino. A Doralice, che viene da
Milano con le donne in nero, non dispiacerebbe incontrare, dopo tanto tempo,
l’amica Fiordiligi, che partecipa con il sindacato scuola di Napoli, ed
entrambe, infatti, si sono impegnate a cercarsi con il telefonino. I
molti minorenni presenti alla marcia (dando al termine il significato corrente
di giovane di età inferiore ai trentacinque anni) sono dotati di genitori
normalmente ansiosi, che non resistendo all’idea di passare un giorno
intero senza notizie delle creature, confidano nel telefonino per tenersi
in assiduo collegamento. Di telefonino sono provvisti i giornalisti
presenti, compreso lo staff di Radio Popolare, e i politici che si aspettano
di esserne adeguatamente intervistati. Insomma, su trecentomila partecipanti,
si può ragionevolmente calcolare che il numero dei dispositivi di telefonia
mobile presenti si aggiri, più o meno, sulle duecentomila unità.
Il risultato è noto. Quando tutti
i detentori di cellulare hanno lanciato al cielo il loro appello elettronico,
il sistema è andato inesorabilmente in tilt. L’area interessata,
che in tempi normali sopporta una popolazione di centocinquantamila abitanti,
non poteva essere dotata di antenne e ponti radio in grado di reggere,
di punto in bianco, un’impennata del traffico di quelle dimensioni. A
destinazione sarà arrivata, con l’aiuto della fortuna, una chiamata su
mille. Gli altri sono restati a bocca asciutta, del tutto impossibilitati
a collegarsi con i propri destinatari. Doralice non ha mai incontrato
Fiordiligi, i militanti del circolo ARCI di Piedimulera sono stati costretti
a vagare per ore nella notte insieme a quelli della cellula anarcosindacalista
di Pordenone, alla disperata ricerca ciascuno del proprio pullman, i genitori
dei minorenni sono restati senza notizie della prole fino all’alba di
lunedì. Più in generale, tutta una rete prevista di incontri, coincidenze,
sinergie è andata clamorosamente all’aria, e senza alcun intervento malevolo
dall’esterno. I molti telefoninatori delusi che si dolevano di essere
stati oscurati da un potere pavido e arrogante, non si rendevano conto
di essersi oscurati da sé. In realtà, il fatti che la marcia abbia
avuto successo, nonostante questa débacle dei sistemi di comunicazione
individuale, può essere considerato una prova dell’efficacia della Provvidenza,
o, a scelta, la dimostrazione del fatto che la maggior parte dei messaggi
che si affidano a quegli strumenti sono molto meno rilevanti di quanto
comunemente si creda.
Io, che ai telefonini, come sapete,
non ho mai creduto, tendo naturalmente a condividere quest’ultima ipotesi.
In fondo, con la possibile eccezione di poche categorie professionali
specializzate, tipo i giornalisti radiofonici, il telefonino è un tipico
dispensatore di servizi sostanzialmente superflui. Non esiste alcuna
reale necessità, salvo quelle che promanano dalle tenebre ansiose della
nostra psiche, di essere rintracciabili in permanenza da chiunque e di
potere a nostra volta rintracciare chiunque ovunque noi siamo. E
i vari impegni della vita associata, infatti, si possono assumere benissimo
senza disporre di quell’apparato, con tutti i suoi annessi e connessi.
Certo, le comodità tecnologiche, pur
superflue che siano, restano una gran bella cosa. Ma le tecnologie,
come avrebbe detto probabilmente Guglielmo da Occam, che, da bravo francescano,
da quelle parti non si sarebbe sentito a disagio, non vanno moltiplicate
praeter necessitatem. Chi è attrezzato per la ricerca del superfluo,
talvolta, può trovarsi inopinatamente in braghe di tela, nel senso che
non riesce a ottenere neanche l’essenziale. Quel che è accaduto
domenica scorsa, nel dolce paesaggio delle colline dell’Umbria, ne è una
prova palmare. Probabilmente, se i vari appuntamenti e i vari impegni
fossero stati assunti secondo le modalità in vigore nell’era pre-cellulare,
sarebbero andati, almeno in buona parte, a miglior fine. Se Doralice
si fosse accordata con Fiordiligi per incontrarsi, che so, sotto il ponte
di Ospedaluzzo, se i vari capigruppo avessero concordato con i rispettivi
autisti un appuntamento alla tal pietra miliare o all’uscita della tal
frazione, molte complicazioni si sarebbero – forse – evitate.
La troppa fiducia in quegli strumenti, unita a una scarsa informazione
sui loro limiti tecnologici e sulle loro modalità e compatibilità d’uso,
si è clamorosamente ritorta su chi la nutriva e se ne pasceva.
Niente di grave, naturalmente. Con
un po’ di fatica in più, è andato tutto bene. Ma tra le molte stranezze
di questi nostri tempi scombinati, quella di dover pagare a caro prezzo
degli strumenti destinati, in ultima analisi, a complicarci la vita non
è certamente la minore
21.10.’01