I sonnellini di Omero

La caccia | Trasmessa il: 11/04/2007


    Avrete letto anche voi che, domenica scorsa, Berlusconi ha consolato i giocatori del Milan, che le avevano prese di santa ragione contro non ricordo più quale squadra rivale, con una citazione di Orazio. Et Homerus aliquando dormit, gli ha assicurato paternamente, come a dire che anche Omero, ogni tanto, dorme e se capita a lui, il più grande dei poeti di tutti i tempi (così, almeno, lo consideravano ai tempi) può succedere anche a un gruppo di, pur strapagatissimi, atleti.
    “Repubblica”, ci informa, con un pizzico di malizia, che quella citazione non era una novità assoluta per il Cavaliere, che l’aveva già ammannita agli stessi destinatari dopo l’1 a 2 con la Roma a San Siro l’anno scorso, nel novembre 2006. Il ragazzo, si sa, ama ripetersi ed è improbabile che qualcuno, nella cerchia dei suoi interlocutori, glielo abbia fatto notare. Io, che non condivido l’atteggiamento malevolo di quel quotidiano verso l’ex Presidente del Consiglio, ma non posso dimenticare di aver speso gran parte della mia vita nell’affermare i valori del mondo classico, spero solo che dodici mesi fa sia stato più preciso. Quella citazione, così com’è riportata dai giornali, è clamorosamente sbagliata. Orazio, al verso 359 dell’Arte poetica, nel secondo libro delle Epistole, scrive Quandoque bonus dormitat Homerus, “talvolta il grande Omero sonnecchia”, che non è esattamente la stessa cosa. Se la citazione di un anno fa fosse stata parimente distorta, il Berlusca, oltre che peccare, more solito, di approssimazione, avrebbe dimostrato di non aver mai letto il testo che citava. Se l’avesse fatto non gli sarebbe sfuggito come, appena quattro versi prima, Orazio osservi che citharoedus ridetur chorda qui semper oberrat eadem, che “si fa deridere il suonatore di cetra che sbaglia sempre la stessa nota” e ci sarebbe stato più attento.
    I portavoce di “Forza Italia”, probabilmente, mi obietteranno che non è il caso di metterla giù così dura. In fondo, tra “dormire” e “sonnecchiare” non c’è quella gran differenza, la distanza semantica tra aliquando e quandoque, nei due contesti, non è infinita e della grandezza di Omero, naturalmente, siamo tutti convinti, senza doverlo precisare con un aggettivo. Il che è verissimo, figuriamoci, ma è anche vero che con Orazio certe confidenze è sempre meglio non prendersele. L’uomo di Venosa, risulta chiaramente da tutta l’Arte poetica, era soprattutto un formalista, nel senso che dava una enorme importanza alle sfumature di stile e alla disposizione delle parole e una semplificazione del genere di quella berlusconiana lo avrebbe, senza dubbio, turbato. E se è vero che le citazioni a memoria sono spesso ingannevoli e gli specialisti di critica del testo sanno bene che alle lezioni testimoniate in quella sede non va data soverchia importanza, non posso fare a meno di notare, in nome del mio passato di classicista, che il latino, per la nostra classe dirigente, è sempre un disastro. Ogni volta che si avventurano nella lingua dei nostri padri, i politici italiani o sbagliano la citazione – appunto – o inciampano nella grammatica e nella sintassi. È capitato anche a Prodi, in giugno, quando, per sottolineare la necessità che il buon cristiano paghi disciplinatamente le tasse, si è azzardato a citare San Paolo nel testo della Vulgata e si è impastocchiato mica male sull’uso di etiam e quoque. Sono stati tutti bravissimi al liceo – dicono – e nessuno di loro ha mai dimostrato la minima propensione, negli ultimi cinquant’anni, a spostare davvero l’asse culturale della scuola media superiore, da sempre ancorato al modello del liceo gesuitico basato sugli autori classici, ma le loro personali incursioni in quel campo fanno correre desolatamente la mano alla matita blu.
    Pazienza. Tanto più che il problema, forse, non è neanche quello della conformità e della correttezza delle citazioni. È più interessante, o per lo meno più rivelatore della psicologia di chi vi indulge, chiedersi perché le si fanno.
    Vedete, la citazione, nella tradizione retorica, ha un uso preciso. A parte qualche contesto molto specifico, come quello teologico, non serve tanto ad asseverare il proprio punto di vista , come comunemente si crede, quanto a stabilire un legame con l’interlocutore, che, riconoscendo e apprezzando quel riferimento, si sente associato ipso facto al parlante (o allo scrivente), viene promosso al suo stesso livello culturale ed è considerato, dunque, un degno destinatario del messaggio in cui la citazione è inserita. È un fatto letterario e nasce all’interno di una concezione al tempo stesso elitaria ed egualitaria della letteratura, intesa come un discorso a chiave tra parigrado. Non per niente Orazio, che di questa visione resta uno degli alfieri più noti, scrive di odiare il volgo profano e di tenersene alla larga.
    Berlusconi, si capisce, con tutto ciò non ha niente a che fare. Lui è (o, meglio, si sente leader in una dimensione di massa. Non considera coloro cui si rivolge sul suo medesimo piano e non ha la minima idea di associarli in una comunità comunicativa. Per lui la comunicazione avviene solo in un senso, come dimostra la sua nota refrattarietà ad accettare i consigli altrui, anche i meglio intenzionati. E, naturalmente, non ha il minimo motivo di supporre che i giocatori del Milan, per quanto valenti nel proprio campo di applicazione, siano in grado di riconoscere una citazione di Orazio, per giunta in latino.
    Lo cita lo stesso, però, perché per lui quella pratica è soprattutto uno strumento di autoglorificazione, un modo di far vedere a tutti quanto è bravo e colto, una ostentazione talmente ostentata da rasentare l’ingenuità. Gli succede come con le barzellette, che, notoriamente, non riesce a non raccontare anche nelle occasioni meno opportune. È considerato soprattutto un uomo di comunicazione, ma gli capita troppo spesso di confondere la comunicazione con l’esibizione.
    Per questo, quando sbaglia è giusto bacchettarlo a dovere.