Contraddizioni pubblicitarie

La caccia | Trasmessa il: 11/04/2007


    Un paio di settimane fa l’amico Accame ci ha confessato in diretta che certe affissioni pubblicitarie lui proprio non le capisce. Anch’io, a suo tempo, devo avervi raccontato, pur in un diverso contesto, qualcosa di simile. Sono cose che succedono: la pubblicità, come tutti i sistemi di comunicazione, si fonda su un corpus di convenzioni in continua evoluzione e non è detto che chi ha superato una certa età di quella trasformazione riesca a tenere il passo. È un problema, oltre che di rimbambimento senile, di aggiornamento culturale.
    Credo di avere compreso benissimo, tuttavia, il messaggio di quei giovanotti che mi fanno dei gestacci da una quantità di manifesti che da qualche giorno fioriscono un po’ dappertutto. “Ma sai che hai snai?” mi dicono le relative didascalie. Oppure “Che snai che hai”, “con Snai bye bye” o anche, in un caso particolarmente imbarazzante, “Che bel snai che hai”. Ora, io, fino a quando non li ho notati, non sapevo assolutamente che cosa fosse uno snai, ma i gesti raffigurati, come vi dicevo, sono inequivocabili. Quasi tutti quei bravi giovani portano le due mani sul davanti, all’altezza del ventre, con i pollici piegati verso l’alto e leggermente ruotati in avanti e gli indici protesi all’ingiù, come a definire spazialmente qualcosa di grosso e rotondo. Non è necessario essere esperti di linguaggio gestuale per capire che il riferimento è a quella parte del corpo situata, si diceva una volta, là dove il sole non batte.
    Bisogna, appunto, aggiornarsi. Le convenzioni vigenti, probabilmente, non permettono ancora di citare quel dettaglio corporeo con il suo nome, almeno non in un messaggio pubblico, in cui una scritta del tipo “Sai che hai culo” o “Che bel culo che hai” (questa ultima, per di più, in bocca a una fanciullina in fiore) non starebbe bene, ma nulla vieta, ormai, di evocarlo in rima, per allusione. È probabile, anzi, che i promotori della campagna abbiano pensato che quel tanto di trasgressivo che quell’allusione conserva, anche nei nostri tempi sboccati, avrebbe contribuito a rendere il messaggio più incisivo ed efficace. Il riferimento, si capisce, non è di tipo volgarmente anatomico, ma più sottilmente metaforico, perché la Snai, come poi ho scoperto, è una (rispettabilissima) agenzia che nel nostro paese gestisce, su licenza statale e prevalentemente per via telematica, il gioco d’azzardo, per vincere al gioco bisogna avere fortuna e tra culo e fortuna, si sa, esiste da sempre un consolidato rapporto sinonimico (basato, credo, sull’assunto per cui due natiche belle tende possono fungere da ammortizzatori in caso di caduta all’indietro). L’espressione non sarà tra le più eleganti, ma è largamente diffusa e quel che conta, si sa, è farsi capire.
    C’è, tuttavia, qualcosa che non funziona. Nel gioco d’azzardo, lo sappiamo tutti, ha davvero snai soprattutto colui che lo gestisce. Alla chiusura della sessione, il banco, il picchetto, l’allibratore, il casinò – l’imprenditore, insomma – vince con desolante regolarità. Non è necessario ricorrere alle pratiche descritte nei thriller degli anni ’40, in cui dietro la roulette o l’agenzia ippica c’era sempre qualche cattivissimo gangster, con il suo corteo di scagnozzi e di specialisti nel truccare dadi, segnare carte o azzoppare cavalli. Basta e avanza la legge dei grandi numeri per garantire che quel tipo di investimenti sia altamente redditizio. E infatti la Snai si tiene ben strette le sue concessioni e se avesse come fine istituzionale quello di distribuire quattrini a pioggia agli scommettitori ben difficilmente lo propaganderebbe con una campagna pubblicitaria diffusa e, suppongo, costosa. Analogamente, se lo stato ha triplicato, in pochi anni, la frequenza delle estrazioni del lotto e ha moltiplicato all’infinito i modelli del “gratta e vinci”, non lo avrà fatto per puro spirito di beneficenza e i molti cattivi soggetti che ancora si danno da fare per insidiare a livello clandestino il quasi monopolio della Snai lo faranno, suppongo, in vista di un certo corposo tornaconto.
    E allora quella campagna pubblicitaria si fonda su un’inversione delle parti. Ad avere snai è, soprattutto, chi non gioca ed è ben deciso, nonostante le pressioni in senso contrario, a non cominciare. Onde le iniziative volte a fargli cambiare idea, come la serie di manifesti di cui ci stiamo occupando. I quali manifesti, in questa prospettiva, possono acquisire persino una sfumatura di minaccia, come se quei ragazzotti volgari e un po’ prepotenti fossero al servizio del boss di turno e volessero avvertirci, in definitiva, che se non ci piegheremo alle loro sollecitazioni ce la faranno vedere loro
    Certo, nel mio caso è possibile che l’interpretazione sia viziata dalle mie cattive abitudini letterarie, che dipenda soprattutto dall’assidua frequentazione dei thriller di cui sopra. Ma in fondo tutta la pubblicità, non solo quella del gioco d’azzardo, è basata sullo stesso principio: consiste, in ultima analisi, in una serie di inviti più o meno pressanti a versare disciplinatamente il nostro denaro nelle casse di chi ce li rivolge. E è vero che di solito ci si promette qualcosa in cambio, ma è altrettanto vero che la promessa, a posteriori, tende a rivelarsi altrettanto fallace di quella di farci ricchi con le scommesse, i dadi e le puntate alle corse. In questo caso, non esistendo un vero e proprio corrispettivo agli esborsi che ci vengono richiesti, il meccanismo è più evidente, meglio lascia intravedere l’inganno su cui, normalmente, si fonda. Nel grande gioco del dare e del prendere su cui si fonda l’economia di mercato, le parti sono stabilite una volta per tutte, c’è chi dà e c’è chi prende e non sono ammessi scambi di ruolo. Se qualcuno ci si prova, normalmente, gli fanno uno snai così.