Felice, della cui prodigiosa memoria
non cesserò mai di stupirmi, visto che è riuscito a recuperare da chissà
quale ripostiglio mentale il titolo di un volume di diciannove anni fa,
del quale personalmente mi ero dimenticato del tutto, ci ha appena detto
che non esiste una storia “di sinistra” o “di destra”, ma che si possono
distinguere soltanto le storie coerenti, fondate su argomenti che si reggono
in piedi, da quelle incoerenti, i cui presupposti non si riuscirebbe a
fare star dritti neanche con le stampelle. Ha ragione, naturalmente.
Ma questo non significa, altrettanto naturalmente, che ogni storiografia
coerente sia ideologicamente neutrale e che chiunque, purché dotato di
un minimo di onestà intellettuale e di sufficiente rispetto per le fonti,
possa far della storia. Non so se l’avete notato anche voi, ma
persino coloro che hanno lanciato i loro anatemi contro lo storia che si
insegna nelle nostre scuole e i relativi libri di testo, considerandoli
viziati e deviati da un’impostazione programmaticamente “di sinistra”,
non hanno avuto il coraggio di contrapporgli dei testi “sani” in quanto
di destra, o almeno immuni dalle insidie del materialismo dialettico. E
per forza: persino Storace, Bossi e Formigoni, che non sono propriamente
degli intellettuali, devono sapere che di testi del genere, in Italia,
non ne esistono, e non certo perché la maggioranza degli insegnanti e la
totalità degli editori siano pazzamente innamorati del marxismo. Questo,
basta aver frequentato un certo numero di scuole o di case editrici, per
poterlo escludere tranquillamente. tanto è vero che, personalmente,
ho il sospetto che, sotto sotto, le loro ire siano rivolte direttamente
contro la storia in sé.
Vedete,
per scrivere di storia, come di qualsiasi altro argomento, bisogna avere
alle spalle una cultura di qualche genere: un quadro valori dichiarato,
un certo numero di categorie interpretative. E sono proprio queste
le cose che alla destra italiana mancano, non foss’altro perché i valori
cui esplicitamente si richiamano le sue componenti sono, in sostanza, incompatibili
tra di loro. Formigoni può proclamarsi, al tempo stesso, liberale
e devoto del beato Pio IX solo a patto che nessuno sappia cos’è il liberalismo
e cosa ne abbia pensato Pio IX. Per mettere assieme l’economicismo
di Berlusconi con il provvidenzialismo oscurantista di C.L., il fascismo
rifritto di A.N. e le elucubrazioni padane di Bossi, la prima condizione
ideologica è l’assoluta ignoranza reciproca. La libertà d’impresa
(ammettendo, per comodità, che a Berlusconi interessi davvero la libertà
delle imprese non sue), non ha nulla a che fare con il Medio Evo tanto
caro ai ciellini e non può comunque accettare un sistema di chiusure territoriali
come quello che il fascismo cercò a suo tempo di realizzare e i leghisti
invocano oggi a gran voce. Il nazionalismo centralista degli eredi
del fascio è fin troppo ovviamente antitetico al localismo della Lega.
Il solidarismo cristiano dovrebbe avere qualche difficoltà nell’andare
a braccetto con il culto finivestiano del Grande Fratello. Se tutti
costoro, nonostante tutto, stanno benissimo insieme, è perché quel che
conta, per loro, non sono le idee, che starebbero freschi, ma i concreti
interessi di potere e di denaro. E siccome, come ci ricordava appunto
Felice, questi interessi non vanno esibiti, ma occultati, ecco bello e
spiegato l’attacco contro ogni pur timido tentativo di interpretazione
coerente del nostro passato. Per la destra italiana (e non solo italiana)
la coerenza è il vero nemico da battere.
C’è
di più. Per chi ha qualche dimestichezza con il marxismo (inteso,
come lo intendeva il vecchio Karl, come un sistema di pensiero critico),
l’idea che nei libri di testo più diffusi nelle scuole italiane allignino
delle “deviazioni marxiste”, qualsiasi cosa esse siano, è naturalmente
ridicola. Ma l’ossessione che la destra dimostra in merito lo è
molto meno. Il marxismo, in fondo, vede la storia in termini di conflitto:
un conflitto che è, in prima istanza, di classe e impronta di sé le culture,
le ideologie, i sistemi politici e via andare. Parte, cioè, dall’individuazione
di un sistema di interessi contrapposti e su questa contrapposizione crea
la propria dottrina politica. E questo, per la destra, è il peccato
per eccellenza. Loro la contrapposizione la negano per principio.
Loro dichiarano sempre di agire senza interessi personali di sorta,
per il bene comune, in nome di quelle Entità con la maiuscola (la Patria,
la Libertà, la Democrazia, l’Economia e chissà che altro) dietro le quali
amano tanto nascondersi. Se vai in giro a spiegare che dietro queste
idealità non ci sono affatto quel benessere e quell’abbondanza per tutti
che in questo mondo imperfetto nessuno ha ancora trovato il modo di realizzare,
ma una realtà sociale complessa in cui, di solito, alcuni si arricchiscono
a spese degli altri, è naturale che si incazzino come belve. Le uniche
storie che piacciono a questa gente sono le favole, quelle in cui, una
volta eliminata la strega cattiva, si vive tutti felici e contenti. Ed
è appunto di queste favole che si apprestano a infarcire, quando saranno
al potere, i testi da proporre alle nuove generazioni. Quanto
alla storia, sono dispostissimi a farne a meno del tutto. Per loro
è troppo pericolosa.
* * *
Permettetemi una postilla. Quel
Pierini di cui vi diceva l’Accame si è rifatto vivo, sul “Corriere della
sera” di mercoledì 15 novembre, con un’importante precisazione. Spiega
che la “concitazione di intervenire nel dibattito” lo ha fatto incorrere,
meschinello, in uno spiacevole errore. Invece che “responsabile
editoriale per la storia” di non so quante e quali case editrici, avrebbe
dovuto più correttamente definirsi “collaboratore del responsabile editoriale
per il settore scolastico dei libri di storia”. Insomma, per pura
sbadataggine si era attribuito la qualifica del proprio capo. Il
quale deve essersene accorto e deve avergli rifilato una girata tremenda,
spingendolo a precisare, inoltre, che “la posizione espressa” rispecchiava
la sua personale opinione e non quella della casa editrice.
Eh
già. In questi giorni è tutto un fiorire di precisazioni. Anche
Fini, se non vado errato, ha preso le distanze da Storace. A chi
ha un minimo di sale in zucca, queste polemiche non possono fare piacere.
Pretendere la censura in nome della Libertà è una posizione troppo
evidentemente contraddittoria per poterla gestire con profitto. E
poi certi programmi non si dichiarano: il vero censore non è quello che
sbandiera per ogni dove le proprie intenzioni censorie. Dire che
la reazione trama sempre nell’ombra non è, dopo tutto, un semplice luogo
comune. Dobbiamo essere sempre grati ai vari Pierini, che,
svolgendo con troppa diligenza il proprio compitino, ci fanno capire, a
rischio di suscitare le ire dei loro capi, che cosa davvero ci aspetta
(C.O.).
19.11.’00