I gatti, le vacche e le droghe

La caccia | Trasmessa il: 10/28/2007


    Che di notte tutti i gatti siano bigi lo sostiene, com’è noto, il refrain di una canzonetta osée del primo Novecento, ma l’affermazione è più antica: la si ritrova, per dirne una, nel titolo di un capitolo dei Tre moschettieri, quello in cui D’Artagnan approfitta dei favori della bella Milady facendosi passare, non ho mai ben capito come, per un altro. Da dove, a sua volta, Dumas avesse mutuato il concetto, non vi saprei dire, a meno che non si tratti di una sua libera riflessione su quel celebre passo della Fenomenologia dello Spirito di Hegel in cui l’Assoluto di Schelling viene paragonato a una notte, presumibilmente senza luna, in cui tutte le vacche sono nere (una immagine che sarebbe piaciuta a Marx, che la riprende, ai danni di Lassalle, nella Critica al programma di Gotha). In questa sede, naturalmente, non possiamo ricostruire la storia del concetto nella cultura europea, né seguirne le numerose ramificazioni, ma è chiaro che in quella notte finiamo per perderci ogni volta che qualcuno desideri ottenere qualcosa senza pagare il dazio, come D’Artagnan, o abbia, come Schelling secondo Hegel, dei problemi di ordine classificatorio.
    In qualche difficoltà del genere è incappato, con tutta evidenza, l’estensore del pieghevole che ho trovato ieri in farmacia. Ho cominciato a leggerlo mentre la signorina dietro il bancone si affannava a mettere insieme le varie specialità che le avevo richiesto. Si trattava di un testo rivolto ostensibilmente ai genitori in ansia, cui, sotto lo slogan “Mi fido di mio figlio, non mi fido della droga”, proponeva un nuovo modello di drug detector, un mezzo rapido e sicuro per dar prova della propria fiducia rilevando la presenza di eventuali sostanze stupefacenti a partire da un piccolo campione delle urine della progenie. Un test, facile, rapido, discreto e di elevata precisione, disponibile in due versioni, la prima, a tre parametri, per individuare ogni traccia di cannabis, cocaina ed ecstasy e la seconda, a cinque, cui non sarebbero sfuggiti, in aggiunta, i consumi di eroina e quelli di anfetamine. Per evitare imbarazzi al momento della richiesta, bastava ritagliare il coupon corrispondente e consegnarlo al farmacista, che, con la dovuta discrezione, avrebbe provveduto.
    Fin qui tutto bene, anche se, personalmente, non oso pensare all’effetto che l’uso frequente di quel ritrovato potrebbe avere sui rapporti interpersonali nell’ambito della famiglia, a quali astuzie le madri potrebbero essere indotte a ricorrere per procurarsi i campioni necessari e di quali espedienti potrebbero servirsi i figli in colpa per non lasciare tracce. Quel testo, in ogni caso, non lasciava trapelare alcun dubbio in materia. La droga, spiegava, in sostanza è un veleno. “Una piccola quantità funziona come stimolante, una quantità maggiore agisce come sedativo e una quantità ancora più grande può causare la morte della persona. Una droga è una sostanza assunta per evitare una condizione fisica e mentale indesiderata. Qualsiasi droga interferisce negativamente sulla fisiologia naturale dell’organismo. Qualsiasi droga si comporta in questo modo.”
    L’argomentazione, naturalmente, non si fermava lì: proseguiva elencando, in pittoresco disordine, i vari pericoli che si corrono indulgendo alle varie sostanze, dal rischio di assuefazione per il 43% dei consumatori di ecstasy, a quello di infarti, convulsioni e colpi apoplettici per i cultori imprudenti del crack e alla possibilità che gli studenti che fumano la marijuana ricevano, a scuola, dei voti inferiori e abbiano meno probabilità di diplomarsi. Ma io, a quel punto, avevo smesso di leggere. Avevo avuto l’impressione di essere finito improvvisamente in una notte buia, circondato da una quantità insolita di gatti bigi o, se preferite, di vacche nere. Capirete: in fondo mi trovavo in una farmacia, vi ero entrato proprio per procurarmi delle sostanze da assumere per evitare una condizione fisica e mentale indesiderata, tutta roba che, a un dosaggio eccessivo, poteva risultare altamente pericolosa, e con lo scopo preciso di farla interferire con la mia fisiologia naturale. Quel volantino, in un certo senso, accusava me. D’altronde io all’uso di quelle sostanze ero indissolubilmente legato e non avrei potuto smetterlo neanche volendo, a rischio di subire delle conseguenze tra le più gravi. E lo stesso, in un certo senso, si poteva dire per il prosciutto crudo che mi apprestavo a consumare a cena e per il bicchiere di vino che intendevo fargli precedere come aperitivo. Entrambe le sostanze, in un modo o nell’altro, possono essere altamente nocive per le coronarie e altri organi interni, ma di entrambe, lo sapevo, non sarei riuscito a fare a meno. Mi ci sono abituato, o, se preferite, assuefatto.
    Sì, lo so. L’ignoto autore di quel testo non aveva la minima intenzione di prendersela con me, né con tutti gli altri frequentatori di farmacie, salumerie e spacci di alcolici. Si era semplicemente trovato alle prese con il problema, ben noto a tutti i fautori delle normative proibizionistiche, per cui, allo stato, non si può azzardare una definizione funzionale del concetto di droga senza farci ricadere una quantità di prodotti più o meno innocui di cui la cultura corrente autorizza (e spesso incentiva) il consumo. È il motivo, in sostanza, per cui i relativi divieti di legge si fondano su elenchi dettagliati e tabelle farmacologiche, rinunciando in partenza a giustificare inclusioni ed esclusioni. La definizione di fondo è implicita, non dichiarabile, e ancorata a certi parametri sociali non meno che ai criteri clinici che di volta in volta si invocano. E questo principio vale nelle occasioni più disparate: il volantino da cui siamo partiti, per esempio, dedica tre colonne al trio ecstasy-crack-marijuana e non spreca una riga sui pericoli dell’eroina, che è senza dubbio il prodotto farmacologicamente più pericoloso tra i quattro, ma non rientra evidentemente tra quelli che preoccupano il suo pubblico di riferimento.
    Perché nella notte dell’ignoranza e del pressappochismo tutti i gatti sembrano bigi, ma non lo sono affatto. E quando D’Artagnan, fatuamente convinto di aver stabilito la posizione una volta per tutte, ha rivelato a Milady il piccolo espediente cui era ricorso, si è trovato, come sanno i lettori di Dumas, nei guai fino al collo