I doni dei greci

La caccia | Trasmessa il: 11/06/2011


    I doni dei greci

    Ricorderete tutti dai vostri studi classici, o semplicemente dal liceo, che un personaggio di Virgilio diceva di temere i greci, anche – e soprattutto – quando portavano doni. Si trattava, se non mi inganno, del sacerdote troiano Laocoonte e va detto che a provare un po' di paura il disgraziato non aveva del tutto torto, visto che il dono cui si riferiva altro non era che il fatale cavallo di legno da cui sarebbero uscite, per la sua città, distruzione e rovina. Non riuscì tuttavia a convincere i suoi concittadini e fece – anzi – una brutta fine, a conferma del fatto che a pensar male spesso ci si azzecca, ma non basta.
    Gli antichi, comunque, collocavano la caduta di Troia nell'anno corrispondente al 1184 a.C., una data non troppo lontana da quella che possiamo ricavare noi combinando i dati letterari con quelli archeologici. Sono dunque passati, da allora, tre millenni abbondanti. Non sono abbastanza, a quanto pare, perché quel genere di paura si diradi, anche se oggi abbiamo a che fare, naturalmente, con tutt'altri greci e tutt'altri doni. Basta vedere le reazioni dei vari Sarkozy, Merkel, Barroso e quelle di tutti i minori papaveri dell'Unione Europea di fronte alla notizia del referendum proposto (per essere precipitosamente ritirato) dall'incauto capo del governo ellenico Papandreu a proposito “piano di salvataggio” elaborato dalle istituzioni europee per il suo paese. Le cronache registrano rabbia manifesta, disapprovazione acuta, larvate minacce di espulsione, immediata convocazione del reprobo a Cannes per le opportune lavate di capo e, tanto per non sbagliare, la minaccia di un blocco immediato del versamento della prevista tranche degli aiuti. Il tutto nella generale, sia pur discutibile, convinzione che i greci avrebbero bocciato all'unanimità le proposte in questione e che questo esito avrebbe rappresentato, per citare le parole del presidente della Eurozona Jean-Claude Jucker, una “intollerabile dissociazione” da accordi già sottoscritti. Una sceneggiata resa drammatica dalla diffusione massiccio, nell'opinione pubblica, appunto dalla paura che l'improvvida iniziativa greca mandasse a carte quarantotto tutta la struttura finanziaria europea e minasse definitivamente la stabilità stessa dell'euro.
    Non so Papandreu, che è un politico astuto, anche se non certo al livello del padre e del nonno (e si è visto), ma sono abbastanza sicuro che di avere in mano tanto potere il cittadino greco medio non aveva neanche il sospetto. Dal suo punto di vista, con ogni probabilità, si sarà trattato semplicemente di applicare uno strumento che non avrebbe certo dovuto far paura a una organizzazione come l'Unione Europea, ostensibilmente ed esplicitamente fondata sui principi della democrazia liberale. In fondo, nell'ipotesi che un paese discuta liberamente del proprio destino e decida, piuttosto di accettare un certo tipo di imposizioni, di andare a fondo per conto proprio, non dovrebbe esserci niente di veramente scandaloso. Peggio per loro, se mai, e auguri. Il pericolo di contagio è più metaforico che reale, date le dimensioni dell'economia greca rispetto a quella dei giganti continentali e non ha neanche un gran senso obiettare, come si è fatto, che nella proposta di referendum va ravvisata più che una manifestazione di democrazia, una ostentazione di populismo, perché dei due termini, checché se ne dica, l'uno non esclude l'altro e, quanto a populismo, basta un rapido giro per le capitali europee, anche le maggiori, senza spingersi fino ad Atene, per trovarne più di quanto se ne desidera. Insomma, l'impressione generale che si ricava da tutta la triste storia è che i pezzi grossi d'Europa e, al loro seguito, buona parte di quelli piccoli abbiano manifestato una improvvisa paura della democrazia (che è anch'essa, storicamente, un “dono dei greci”), nel convincimento di una totale incompatibilità tra i suoi presupposti e la stabilità economica del continente. Discutere e decidere collettivamente va bene, figuriamoci, ma quando si tratta di soldi è meglio lasciare la parola agli esperti, che sono – naturalmente – quelli che ne hanno di più. Altrimenti ti espello.
    O forse l'oggetto del contendere non era la situazione economica, ma proprio la democrazia. Anche in Italia le proposte avanzate con il fine conclamato di metterci al riparo dalla sindrome greca sono state avanzate in forma rigidamente non democratica – con la lettera di una banca, figuriamoci – e hanno come obiettivo di primo livello la riduzione di un certo numero di diritti acquisiti dai cittadini. È come se i detentori del potere economico brandissero minacciosamente la propria stessa crisi (i rischi di default, le minacce di fallimento...) per persuadere noi poveri cristi a sottoscrivere senza fiatare la prospettiva di venire espropriati di beni e diritti di nostra spettanza. In questa ipotesi, ad essere veramente a rischio non sono tanto il rendimento dei bond e l'affidabilità del debito sovrano, quanto le conquiste delle lotte dei lavoratori. Il che significa che la crisi può essere vista come lo strumento di cui il capitale (come si sarebbe detto una volta) si serve artatamente per ristrutturare a proprio vantaggio l'equilibrio dei poteri, eliminando una volta per tutte quel fastidioso sistema di garanzie dietro le quali trovavano riparo le classi subalterne. Un mondo in cui la forbice tra i detentori di ricchezza e i portatori di povertà aumenta con la inesorabile progressione che registriamo da un paio di decenni non può semplicemente permettersi la democrazia.

    O forse è la democrazia che non può permettersi il capitale.
06.11.'11


    Nota

    L'episodio di Laocoonte si legge nel II libro dell'Eneide, ai versi 199 – 238.