Leggo sul “manifesto” di martedì che
il municipio urbano di Kreuzburg-Friedrichshain, a Berlino, ha deciso di
intestare una via – un tratto della già esistente Kochstrasse – a Rudi
Dutschke, il noto agitatore extraparlamentare dei tardi anni ’60 del secolo
scorso. A nulla è valso il referendum abrogativo promosso da certi
cittadini di opposto orientamento, che non hanno raccolto più del 42,9
% dei consensi, per cui la proposta, dando per superato il ricorso presentato
dagli esercenti della zona, che si sentono, chissà perché, minacciati nei
loro “diritti commerciali”, dovrebbe diventare esecutiva a breve. Il
quotidiano, sull’esempio forse della “Tageszeitung”, che del “manifesto”
è un po’ l’omologo berlinese, ha giudicato l’evento degno della prima
pagina, sia pure in taglio basso, e di un titolo piuttosto enfatico, “E
Rudi il rosso tornò a combattere contro Springer”: che allude al fatto
che i giornali del gruppo Springer erano stati corifei, quarant’anni fa,
di una violenta campagna contro quello che consideravano l’uomo simbolo
di tutta la sinistra antagonista e adesso, visto che hanno sede proprio
su quella via (come, del resto, la “Tageszeitung”), saranno costretti
a perpetuare quel nome inviso sul proprio stesso indirizzo postale.
La
notizia potrà confortare chi è convinto che tutto il mondo sia, come si
dice, paese, per cui anche i tedeschi, nonostante la fama di gente seria
e pedante che gli si attribuisce, possono appassionarsi di simili futilità,
anche se va detto che di tutti gli abitanti della circoscrizione solo il
16,6% si è preso il disturbo di andare a votare. Per il resto, non
mi sembra sia il caso di entusiasmarsi più di tanto. Ci vuole davvero
un’overdose di buona volontà per credere che l’esistenza di una Rudi
Dutschke Strasse a Kreuzberg possa essere rilevante agli effetti della
lotta per la democrazia in Germania o altrove. Rudi ci ha lasciato
nel 1979, vittima di un clima di violenza che gli attacchi della stampa
di destra avevano senza dubbio incattivito ad arte, ma non sarà certo l’intestazione
di un segmento di strada a rendergli giustizia, tanto più che una traversa
della stessa via reca da tempo il nome di Alex Springer, come a dire di
colui che quegli attacchi aveva voluto e orchestrato (ed è scomparso, a
sua volta, nel 1986). E poi, è passata troppa acqua sotto i ponti
della Sprea e degli altri fiumi d’Europa, per poter affermare che una
presenza, come dire, toponomastica significhi un ritorno alla lotta. Non
solo perché il quadro politico è ovviamente diverso da allora e chissà
su quali posizioni si batterebbe il compagno Dutschke se fosse ancora tra
noi (esempi come quelli di Daniel Cohen-Bendit e di Joschka Fischer non
fanno pensare a niente di buono), ma perché nulla assicura che il suo nome,
una volta iscritto su una targa stradale, sia per ciò stesso salvato dal
tarlo dell’oblio e dalla notte della dimenticanza.
In
effetti, nulla si usura tanto in fretta quanto i nomi degli intestatari
delle vie cittadine. È come se la loro identità viabilistica debba
inghiottire, poco per volta, il ricordo dell’attività e delle opere che
pure gli hanno valso la intestazione. I cittadini si abituano al
nome e dimenticano l’individuo (se mai l’hanno conosciuto). Tutti
sanno, a Milano, che via Vitruvio parte dalla Stazione Centrale e va verso
Città Studi e che via Ripamonti conduce a Opera da porta Vigentina, ma
questo non significa che tra loro ci sia una percentuale rilevante di lettori
del De Architectura o di conoscitori della Storia della peste a Milano.
Gli ascoltatori di Radio Popolare associano in automatica il nostro
indirizzo al nome di Ulrico Ollearo, ma è lecito chiedersi quanti tra loro
avranno un’idea qualsiasi del perché a quel degno personaggio sia stata
dedicata la mezza via in cui abbiamo sede (e anch’io, quanto a questo,
lo ignoro). E a Berlino, naturalmente, non saranno stati moltissimi,
anche tra i nemici di Rudi Dutschke, a sapere che il Johannes Koch cui
è attualmente intestata per tutta la sua lunghezza quella via di Kreuzberg
è stato viceborgomastro della città nel XVIII secolo, una funzione che,
francamente, non sembra giustificare onori particolari, né garantire memorie
imperiture.
Eppure,
le polemiche in merito, a Milano come a Berlino, non sembrano destinate
a placarsi. Se lassù, da bravi, coscienziosi prussiani, organizzano
un referendum, qui da noi il consiglio comunale non esita ad affrontare
il ridicolo (e a violare la normativa vigente) pur di intestare un fazzoletto
di verde a Oriana Fallaci. E in tutta Italia non c’è amministratore
locale del centro destra che non accarezzi il sogno segreto di essere il
primo ad allinearsi alle autorità di Hammamet, dedicando, se non un boulevard,
almeno uno slargo a quel Benedetto Bettino di cui in tanti oggi, dopo averne
arraffate a suo tempo le spoglie, rivendicano la cara memoria. Presto
o tardi, qualcuno ci arriverà e vedrete che lo seguiranno subito
in molti. E non è neanche il caso di farsi, per questo, del sangue
cattivo.
Intendiamoci.
Personalmente resto convinto – come, suppongo, voi – che a quel
nome si debba augurare, se non la damnatio memoriae, almeno un pietoso
oblio. Ma non è certo per salvaguardarne la fama che si agitano in
tanti. Gli zelatori di Corso Craxi e del Parco Fallaci della Fallaci
e di Craxi, in buona sostanza, se ne fregano assai. Si limitano
a condurre una sorta di guerriglia postuma, servendosi di quei nomi controversi
per celebrare piccole vendette personali, perseguendo delle modeste rivincite
di basso profilo ideologico. Lasciamoli pure fare, senza soggiacere
alla maldestra idea di imitarli o di contrapporre improvvidamente nome
a nome. Certi progetti hanno il respiro troppo corto perché valga
la pena di preoccuparsene. Il giorno in cui del Bettino nazionale
si parlerà come di “quello del corso” e l’ottima Oriana sarà ricordata
solo come la patronessa dei giardinetti di via Crivelli vivremo tutti,
credetemi, in un’Italia migliore.
28.01.’07