Non dubito che i nostri maggiori –
i miei genitori, i vostri nonni, la generazione che ebbe a vivere l’esperienza
dell’ultima guerra – abbiano avuto tutti i motivi del mondo per essere
grati agli Stati Uniti di America, che li avevano, come si dice oggi, liberati
dal nazifascismo. Sapevano, certo, che a liberarli gli americani
non erano venuti per pura generosità o per esclusiva dedizione agli ideali
della democrazia, nel senso che il nostro paese rappresentava, dopo il
collasso del fascismo, solo uno dei tanti fronti del conflitto tra gli
Alleati e la Germania, e avevano imparato sulla propria pelle che nella
condotta di guerra i loro interessi prevalevano ovviamente sui nostri (non
si spiegherebbe altrimenti la deliberata lentezza con cui, dal luglio del
’43 in poi, i loro eserciti risalirono la penisola), ma sapevano anche
che, senza in nulla voler sminuire l’apporto della Resistenza, l’intervento
di quegli eserciti era stato decisivo. Per la maggior parte degli
italiani, in quei due lunghissimi anni che seguirono lo sbarco in Sicilia
del luglio ’43, la speranza nell’arrivo dei “liberatori” era stata,
in un certo senso, uno dei pochi elementi che aiutavano a tirare avanti.
Di tutto questo, ripeto, non ho motivi
di dubitare. Però non capisco per quale motivo agli americani dovrei
essere grato io. Il mondo cambia in fretta, quelle vicende appartengono
ormai al passato e gli interessi e i valori dei nuovi protagonisti della
politica planetaria sono fatalmente diversi da quelli di allora. L’invito
a fraternizzare con Bush oggi in nome di quanto ha fatto Roosevelt ieri
non può che suonare, come minimo, ingenuo. Quel tanto di benessere
e libertà di cui, bene o male, godiamo ce la siamo costruito noi, con il
lavoro e le lotte di questi ultimi decenni. Sarebbe ingiusto attribuire
ad altri i (molteplici) fallimenti della nostra società, ma non si vede
perché ad altri si debba essere grati dei suoi sviluppi positivi.
Se invece l’invito fosse quello a storicizzare,
a considerare le nostre faccende di oggi in un quadro e una prospettiva
più ampli, in cui le vicende di quegli anni lontani conservino comunque
un loro significato e rappresentino una lezione per tutti noi, be’, allora
il problema sarebbe davvero complicato. La storia è una cosa seria
e non accetta storielle edificanti, come quella del potente amico venuto
da oltre oceano a portare la democrazia. Tiene conto delle motivazioni
e degli obiettivi di tutte le parti in causa, che non coincidono – appunto
– con quelle in causa oggi. Destinatari della nostra gratitudine,
così, non dovrebbero essere soltanto gli americani. Dovrebbero esservi
compresi tutti coloro che per un motivo o per l’altro, volenti e nolenti,
hanno partecipato a quegli avvenimenti, compresi quei polacchi che gli
inglesi mandarono, con false promesse, a farsi massacrare sotto Montecassino,
i neozelandesi che vennero dall’altra parte del mondo a morire sotto quelle
stesse mura e persino quei marocchini di cui per decenni si sono raccontate
le peggio cose, ma, in fondo, erano stati trascinati in una guerra con
cui non c’entravano nulla e, in quella guerra, non fecero nulla che in
tutte le altre guerre non si fosse già abbondantemente fatto. Ma,
soprattutto, non si capisce perché gli italiani non dovrebbero essere grati
al governo ai popoli dell’Unione Sovietica, che tennero impegnate sul
fronte orientale non so quante decine di divisioni tedesche contribuendo
in misura decisiva al risultato finale. In fondo, la lotta al fascismo
non fu condotta esattamente in nome delle posizioni ideologiche che oggi
caratterizzano il presidente degli Stati Uniti e il capo del governo italiano.
La storia si può ricostruire, con qualche
cautela, ma si può facilmente falsificare. Il balletto romano di
Bush e Berlusconi si è fondato, in gran parte, su una falsificazione, in
nome di un parallelismo che è stato possibile tracciare solo grazie a una
versione caricaturale degli eventi e a una drastica riduzione del numero
dei protagonisti. Non potevano fare altro, naturalmente, visto che
nessuno dei due condivide, o semplicemente rispetta, gli ideali di allora,
ma basta questo a far capire quanto poco ci si possa fidare di loro. Non
è possibile accettare lezioni di democrazia da chi ha così poco rispetto
per la verità.
06.06.’04