Giovani digiunatori

La caccia | Trasmessa il: 10/16/2005




Avrete sicuramente notato anche voi come i quotidiani siano sempre più uguali tra loro e il fenomeno si accentui man mano che cresce il livello di concorrenza tra le testate.  Il “Corriere della sera” e la “Repubblica” – per restare ai maggiori – da un po’ sembrano impegnati in uno sforzo di emulazione reciproca:  hanno la stessa linea politica, offrono, più o meno, gli stessi inserti, le stesse enciclopedie, le stesse storie d’Italia e le stesse collane di classici e gli capita sempre più spesso di uscire con gli stessi titoli di prima pagina, o quasi.  Da quando, lo scorso luglio, il “Corriere” ha rimpicciolito il formato, anche quella differenza si è attenuata parecchio.  E se i responsabili marketing dei rispettivi gruppi avranno le loro ragioni, così a occhio il fenomeno non sembra poter giovare un granché all’informazione giornalistica complessiva.  È un campo, questo, in cui dell’uniformità diffusa è meglio diffidare.

Un esempio.  Era normale che mercoledì scorso entrambi i giornali riferissero della decisione del direttore dell’istituto comprensivo “Cadorna” di Milano di invitare le famiglie degli alunni musulmani intenzionati a seguire i precetti del Ramadan a tenere a casa i bambini per il mese in corso, perché non soffrissero della necessità di digiunare mentre i loro condiscepoli si abboffavano allegramente in mensa.  La notizia c’era e andava data.  Ma è abbastanza curioso, lo ammetterete, che tutti e due abbiano affidato il commento a un collaboratore di patente estrazione islamica (perché in ogni redazione che si rispetti c’è un collaboratore islamico, il cui compito, di solito, è quello di riferire dei problemi del Medio Oriente nel modo più conforme possibile al pensiero di Bush) e che costoro abbiano sviluppato delle argomentazioni, se non identiche, affatto convergenti.

Così, sul “Corriere” il noto Magdi Allam spiega che “costringere dei bambini di otto-dieci anni a digiunare a scuola” è “un atto incivile, perché da quell’obbligo sono esentati “i malati, i deboli, gli anziani, i viaggiatori” e quanti non abbiano raggiunto la pubertà, un’età sulla cui determinazione le varie scuole islamiche non concordano, ma si situa comunque ben al di sopra dei dieci anni.  E cita molti pii musulmani di oggi, imam, ministri e affini, che testimoniamo in merito, ricordando le loro esperienze personali, esempio di un “islam interiore, civile, moderato, pragmatico” che “fa primeggiare il valore della vita sull’ideologia” e coincide, quindi, con “la coraggiosa iniziativa laica” del preside milanese, in cui l’articolista legge, com’è suo costume, un invito implicito “a non cedere a quanti in Italia, anche sulla pelle dei bambini, vorrebbero imporre un islam disumano e violento”.  Su “Repubblica”, invece, il suo omonimo Khaled Fouad Allam, si limita a ricordare la propria infanzia, quando si sapeva che “i bambini devono crescere” e hanno bisogno di “un equilibrio alimentare durante la giornata”, per cui mai gli si sarebbe imposto un mese intero di digiuno: l’avvio dei piccoli musulmani agli obblighi del Ramadan rappresentava una sorta di rito di iniziazione al mondo adulto, aveva carattere progressivo (cominciando, nei ricordi dell’autore, con tre giorni a otto anni) e comportava una certa solennità familiare, esplicitata da un regalo importante.  “Il mondo musulmano oggi” invece “è ossessionato da una ritualità che si è separata dalla sua cultura tradizionale”, i suoi esponenti, specie nella diaspora “tendono a identificarsi esclusivamente nel rito”, manca in loro “tutto quel versante di critica e duttilità grazie al quale le regole si adattano alle condizioni di vita e alle contingenze”, il che “li rende ossessionati” di “un’identità che confonde la religione con un insieme di regole e divieti”.

Parole sante, verrebbe da dire.  Sono considerazioni, specie quelle dell’Allam di “Repubblica”, che trovo assai ragionevoli e non mi dispiacerebbe se, mutatis mutandis, qualcuno indirizzasse rilievi simili a certi cristiani, tipo Ratzinger e Ruini, che sulla identificazione della religione con un insieme di regole e divieti non sembrano avere granché da ridire.  Eppure… eppure , forse sbaglierò, ma in questo fiorire di laicismo illuminista sui due maggiori quotidiani italiani, mi sembra di avvertire una nota falsa.  È come se quelle considerazioni, in sé pregevoli, siano mal collocate e quei  discorsi siano troppo belli per l’occasione che li ha suscitati.

Perché, scusate, che cosa corrisponde – nel concreto – a questa esaltazione quasi volterrana della tolleranza e della duttilità in campo ideologico?  Corrisponde un atto amministrativo, con cui le autorità scolastiche competenti si sono liberate di un problema che, quali che fossero le sue cause, esisteva e non era di piccolo conto.  E a parte il fatto che la tolleranza e la duttilità non si impongono a suon di circolari del Preside, rimuovere un problema non significa mai risolverlo.  I bambini che celebrano il Ramadan creano imbarazzo e disturbo psicologico a sé e agli altri?  Benissimo: se ne vadano e non se ne parli più.  Se vogliono ritornare non devono far altro, loro e i loro genitori, che adeguarsi.

Vi sembra un’esagerazione?  Be’, è la procedura standard che la nostra civile città adotta, ormai, nei confronti della sua cospicua comunità islamica.  Pensate a quel che è successo nel caso della scuola di via Quaranta.  Diamo pure per vero tutto quel che si è detto sull’impraticabilità igienica, culturale e pedagogica di quell’istituzione: resta il fatto che niente hanno saputo fare le autorità se non chiuderla e invitare gli alunni ad andare alla scuola pubblica, sulle cui virtù di aggregazione e integrazione si sono sentiti i più commuoventi discorsi, magari a opera degli stessi messeri che si battono perché alle famiglie cattoliche siano garantiti a spese dello stato quegli “assegni di studio” che gli consentono di mandare i figli nella scuola confessionale di loro scelta.  Anche in questo caso, dunque, una lezione di laicismo valida solo per gli altri e impartita sempre a suon di divieti.

D’altro canto non sembra che la nostra città  senta una gran responsabilità nei confronti di quegli immigrati.  A Milano, dove vige un’antica tradizione di intervento municipale a favore delle istituzioni comunitarie, i musulmani non dispongono – che io sappia – né di una moschea degna di questo nome, né di un centro culturale, un’associazione ricreativa o qualsiasi altra struttura pubblica concepita per facilitarne l’integrazione.  La grande, generosa Milano non ritiene di avere obblighi in merito.  Ha bisogno di questi nuovi cittadini, del loro contributo allo sviluppo comune, ma delle loro necessità culturali e spirituali non crede doversi far carico.  Cazzi loro, come si dice.  Se poi, com’è successo nei casi che abbiamo visto oggi, qualcuno decide di rimandare moglie e figli in Egitto o in Marocco, restando solo lui a lavorare, tanto meglio.  Per molti milanesi, forse per la maggioranza, quella di ridurre gli immigrati a Gastarbeiter senza famiglia (e senza i relativi costi sociali) sarebbe, probabilmente, la soluzione ideale.

È un quadro, lo ammetterete, già abbastanza brutto.  Ma certe prediche interessate sulla tolleranza, la moderazione e la duttilità (altrui) lo rendono ancora più sgradevole, come succede sempre quando al danno della discriminazione si aggiunge la beffa dell’ipocrisia.

16.10.’05