Il pube femminile, con particolare riguardo alla peluria
che di solito lo ricopre, non ha mai avuto molta fortuna con l’arte. Una
delle convenzioni più ferree della scultura classica era quella per cui
alle figure maschili era lecito ostentare tutto il bendiddio di cui disponevano,
con i suoi bravi ricciolini al posto giusto, anche se renderli sul marmo
a colpi di scalpello doveva essere una fatica pazzesca, mentre le donne
(e le dee) potevano essere rappresentate al naturale solo dalla vita in
su. Quel limite, come è noto, sarebbe stato spostato al collo nel
Medio Evo, per ambo i sessi, e non avrebbe conosciuto una vera liberalizzazione
neanche con il Rinascimento, un’età in cui i cui non si disdegnava la
rappresentazione del corpo umano, ma si aveva cura di celarne quella parte
dietro provvidi cespugli fronzuti, casuali sporgenze rocciose, ramoscelli
fioriti vagabondi o, al limite, mediante la pudica interposizione della
mano della titolare, un espediente già utilizzato nel 1486 dal Botticelli
per la Nascita di Venere e destinato a resistere almeno fino all’Olympia
del Manet, che è del 1866, e se nello stesso anno Gustave Courbet si azzardò
a violare il tabù con L’origine du monde, in cui l’organo in questione
figura in primo piano in taglia XXL, è noto che gliene derivarono tanti
di quei guai da far passare a chiunque l’idea di riprovarci. Furono
le avanguardie artistiche del primo ‘900 a eludere il divieto una
volta per tutte, nell’ambito del generale scardinamento dei canoni del
realismo figurativo e, anche allora, l’opera di un Modigliani, che nei
suoi nudi era piuttosto particolareggiato, suscitava ricusazioni, persecuzioni
giudiziarie e polemiche a non finire. D’altronde, da provocatore
nato qual era, probabilmente le aveva previste e persino sollecitate.
Questo, d’altronde,
è il mestiere degli artisti, da un paio di secoli a questa parte: allargare
a forza di provocazioni le tematiche e le possibilità espressive, contribuendo,
per quanto gli compete, a liberare i loro simili dai pregiudizi e dalle
tentazioni censorie, che sono cose che bene non fanno mai. Poi, naturalmente,
si può discutere, nel senso che le provocazioni, dopo un po’, cessano
di essere tali e alla lotta contro il bigottismo, ahimè, può intrecciarsi
una certa tendenza alla mercificazione del corpo, per cui delle immagini
legate alla sessualità si finisce per servirsi anche per avvalorare non
poche transazioni disdicevoli, ma chi non risica non rosica e della “moralità”di
una volta non c’è motivo di aver nostalgia. L’evoluzione
del costume comporta dei rischi, ma la sua pietrificazione è più pericolosa.
E comunque è poco ma sicuro che oggi non c’è madre di famiglia (né,
forse, madre badessa) che, potendo, non appenderebbe in salotto un nudo
di Modigliani e che Courbet, se riproponesse quella celebre opera,
susciterebbe più sbadigli che proteste.
Tranne, naturalmente,
che tra i consiglieri comunali e altri sedicenti pezzi grossi della nostra
città. Quelli, grazie a Dio, si scandalizzano ancora. Basta
che una qualsiasi “Associazione culturale arte da mangiare” proponga,
nell’ambito delle iniziative per l’esposizione internazionale di arte
contemporanea, l’installazione nel verde del parco di una scultura in
vetroresina e tondino di ferro che al pelo pubico della donna appunto si
ispira, opera – leggo – di Silla Ferradini, un artista che
non conosco, ma con cui simpatizzo, se non altro perché portare quel nome
deve essere una bella croce, ed ecco che si scatena il più prevedibile
dei bailamme. Come se qualcuno avesse davvero paura che, cominciando
così, si finisca con l’abbattere la colonna Vendôme.
Dire prevedibile, in realtà, è un eufemismo. Il
copione è tanto sperimentato da spingere al suicidio per noia. C’è
chi propone di ritirare il pubblico patrocinio all’intera manifestazione,
chi si accontenterebbe di eliminare quel singolo oggetto (che pure, nella
sua stilizzazione, sembra abbastanza innocuo), chi assicura che Milano
merita di meglio, come se il sindaco Albertini, finora, avesse dotato la
città di chissà quali insigni capolavori, chi scopre che questa, ma guarda
un po’, non è arte e chi, come la Tiziana Maiolo, che finora, migrazioni
politiche a parte, avevo considerato una donna intelligente, si sente offesa
a nome di tutto il genere femminile. I più accorti, fingendo di non
cogliere il senso della questione, ribattono che dall’unica fotografia
che circola non si può capir bene e si riservano un più meditato giudizio
a opera esposta. I più colti citano questo o quel precedente.
E un’intervista, bene o male, ci scappa per tutti.
Ora, naturalmente, ciascuno si diverte come crede. C’è
a chi piace giocare al dottore e chi ai soldatini. Ma perché, in
nome del cielo, ci si debba dilettare con delle polemiche così stantie,
con un gioco delle parti così ferreamente datato, non è facilissimo da
capire. È come se, nella consapevolezza della propria ignoranza e
della miseria culturale cui la città si è ridotta, la classe dirigente
milanese abbia deciso di fare un tentativo di autonobilitazione mimando
la vecchia, sperimentata querelle del borghese indignato e dell’artista
provocatore. Così, devono aver pensato, non si corrono rischi, non
si fa del male a nessuno ed entrambe le parti in causa ne traggono il dovuto
vantaggio.
Ora, il gioco può sembrare innocuo, ancorché un po’ futile,
ma forse non lo è del tutto, perché, nel frattempo, tutto, in giro, sta
andando in malora, e non solo dal punto di vista artistico e forse costoro
farebbero meglio a smettere di giocare e a cercare di impegnarsi davvero
con i problemi di cui dovrebbero occuparsi. Tra la banalità del
dibattito intellettuale e la crisi sociale ed economica esiste un rapporto
piuttosto stretto, anche se sarebbe troppo sperare che certa gente se ne
renda conto. Milano merita effettivamente di meglio, ma non nel senso
che dicono loro.
01.05.’05