Giochi di società

La caccia | Trasmessa il: 05/01/2005



Il pube femminile, con particolare riguardo alla peluria che di solito lo ricopre, non ha mai avuto molta fortuna con l’arte.  Una delle convenzioni più ferree della scultura classica era quella per cui alle figure maschili era lecito ostentare tutto il bendiddio di cui disponevano, con i suoi bravi ricciolini al posto giusto, anche se renderli sul marmo a colpi di scalpello doveva essere una fatica pazzesca, mentre le donne (e le dee) potevano essere rappresentate al naturale solo dalla vita in su.  Quel limite, come è noto, sarebbe stato spostato al collo nel Medio Evo, per ambo i sessi, e non avrebbe conosciuto una vera liberalizzazione neanche con il Rinascimento, un’età in cui i cui non si disdegnava la rappresentazione del corpo umano, ma si aveva cura di celarne quella parte dietro provvidi cespugli fronzuti, casuali sporgenze rocciose, ramoscelli fioriti vagabondi o, al limite, mediante la pudica interposizione della mano della titolare, un espediente già utilizzato nel 1486 dal Botticelli per la Nascita di Venere e destinato a resistere almeno fino all’Olympia del Manet, che è del 1866, e se nello stesso anno Gustave Courbet si azzardò a violare il tabù con L’origine du monde, in cui l’organo in questione figura in primo piano in taglia XXL, è noto che gliene derivarono tanti di quei guai da far passare a chiunque l’idea di riprovarci.  Furono le avanguardie artistiche del primo ‘900 a  eludere il divieto una volta per tutte, nell’ambito del generale scardinamento dei canoni del realismo figurativo e, anche allora, l’opera di un Modigliani, che nei suoi nudi era piuttosto particolareggiato, suscitava ricusazioni, persecuzioni giudiziarie e polemiche a non finire.  D’altronde, da provocatore nato qual era, probabilmente le aveva previste e persino sollecitate.
        Questo, d’altronde, è il mestiere degli artisti, da un paio di secoli a questa parte: allargare a forza di provocazioni le tematiche e le possibilità espressive, contribuendo, per quanto gli compete, a liberare i loro simili dai pregiudizi e dalle tentazioni censorie, che sono cose che bene non fanno mai.  Poi, naturalmente, si può discutere, nel senso che le provocazioni, dopo un po’, cessano di essere tali e alla lotta contro il bigottismo, ahimè, può intrecciarsi una certa tendenza alla mercificazione del corpo, per cui delle immagini legate alla sessualità si finisce per servirsi anche per avvalorare non poche transazioni disdicevoli, ma chi non risica non rosica e della “moralità”di una volta non c’è motivo di aver  nostalgia.  L’evoluzione del costume comporta dei rischi, ma la sua pietrificazione è più pericolosa.  E comunque è poco ma sicuro che oggi non c’è madre di famiglia (né, forse, madre badessa) che, potendo, non appenderebbe in salotto un nudo di Modigliani e che  Courbet, se riproponesse quella celebre opera, susciterebbe più sbadigli che proteste.
        Tranne, naturalmente, che tra i consiglieri comunali e altri sedicenti pezzi grossi della nostra città.  Quelli, grazie a Dio, si scandalizzano ancora.  Basta che una qualsiasi “Associazione culturale arte da mangiare” proponga, nell’ambito delle iniziative per l’esposizione internazionale di arte contemporanea, l’installazione nel verde del parco di una scultura in vetroresina e tondino di ferro che al pelo pubico della donna appunto si ispira, opera –  leggo –  di Silla Ferradini, un artista che non conosco, ma con cui simpatizzo, se non altro perché portare quel nome deve essere una bella croce, ed ecco che si scatena il più prevedibile dei bailamme.  Come se qualcuno avesse davvero paura che, cominciando così, si finisca con l’abbattere la colonna Vendôme.
Dire prevedibile, in realtà, è un eufemismo.  Il copione è tanto sperimentato da spingere al suicidio per noia.  C’è chi propone di ritirare il pubblico patrocinio all’intera manifestazione, chi si accontenterebbe di eliminare quel singolo oggetto (che pure, nella sua stilizzazione, sembra abbastanza innocuo), chi assicura che Milano merita di meglio, come se il sindaco Albertini, finora, avesse dotato la città di chissà quali insigni capolavori, chi scopre che questa, ma guarda un po’, non è arte e chi, come la Tiziana Maiolo, che finora, migrazioni politiche a parte, avevo considerato una donna intelligente, si sente offesa a nome di tutto il genere femminile.  I più accorti, fingendo di non cogliere il senso della questione, ribattono che dall’unica fotografia che circola non si può capir bene e si riservano un più meditato giudizio a opera esposta.  I più colti citano questo o quel  precedente.  E un’intervista, bene o male, ci scappa per tutti.
Ora, naturalmente, ciascuno si diverte come crede.  C’è a chi piace giocare al dottore e chi ai soldatini.  Ma perché, in nome del cielo, ci si debba dilettare con delle polemiche così stantie, con un gioco delle parti così ferreamente datato, non è facilissimo da capire.  È come se, nella consapevolezza della propria ignoranza e della miseria culturale cui la città si è ridotta, la classe dirigente milanese abbia deciso di fare un tentativo di autonobilitazione mimando la vecchia, sperimentata querelle del borghese indignato e dell’artista provocatore.  Così, devono aver pensato, non si corrono rischi, non si fa del male a nessuno ed entrambe le parti in causa ne traggono il dovuto vantaggio.
Ora, il gioco può sembrare innocuo, ancorché un po’ futile, ma forse non lo è del tutto, perché, nel frattempo, tutto, in giro, sta andando in malora, e non solo dal punto di vista artistico e forse costoro farebbero meglio a smettere di giocare e a cercare di impegnarsi davvero con i problemi di cui dovrebbero occuparsi.   Tra la banalità del dibattito intellettuale e la crisi sociale ed economica esiste un rapporto piuttosto stretto, anche se sarebbe troppo sperare che certa gente se ne renda conto.  Milano merita effettivamente di meglio, ma non nel senso che dicono loro.

01.05.’05