Il ministro Martino, ci assicura il “Corriere” di giovedì, è un galantuomo,
anzi, un “galantuomo liberale”. La definizione, sulla quale non
abbiamo, dio ne scampi, nulla da ridire, non comporta, naturalmente, un
giudizio in termini di capacità e di efficienza. Anzi, lo stesso
giornalista che la avanza non può negare, nel suo pezzo, che l’attuale
titolare della Difesa si sia mostrato, nelle risposte al question time
della Camera sul noto problema delle torture in Iraq, straordinariamente
inetto. In effetti, un ministro capace soltanto di invocare, in difesa
dell’operato (o del non operato) suo e del gabinetto di cui fa parte,
l’argomento del “noi non sapevamo niente” non solo attira, ma letteralmente
invoca una patente di incapacità. Perché per chi riveste certe posizioni,
ovviamente, il non sapere non è una giustificazione, ma un’aggravante.
L’argomento è stato largamente sviluppato
dai commentatori dell’opposizione e persino da qualche incazzatissimo
membro del governo, per cui mi asterrò, in questa sede, dall’infierire.
Vorrei fare notare, anzi, che quel poveruomo (il ministro, dico)
non aveva, in fondo, molta scelta. Il “non sapevamo niente” era
stato assunto da subito come unica linea di difesa dallo stesso Bush e
cosa può fare un leale alfiere dell’atlantismo di fronte alle dichiarazioni
del comandante supremo in persona? Non può far altro che dire che
non ne sapeva niente neanche lui e restare lì a prendersi stoicamente la
sua dose di ortaggi e pernacchi, da quell’autentico galantuomo che è.
D’altronde, vi confesserò che da quel tipo
di argomentazione non riesco, nonostante tutto, a farmi scandalizzare.
Il “non sapevamo niente” dei potenti mi sembra molto meno deplorevole
del loro eterno, ricorrente “non sono stato io”. Che si risolve,
com’è noto, nella pretesa che le conseguenze più sporche della guerra,
le torture, appunto, e i massacri, le violenze, i delitti, la pulizia etnica
e gli altri “effetti collaterali” che la accompagnano da sempre siano,
come dire, degli optional, dei fenomeni accessori che si potrebbero eliminare
con un po’ di buona volontà e con un minimo di ossequio alle sagge disposizioni
dei capi. Come se la guerra, in sé, non consistesse nell’applicazione
su vasta scala della minaccia di annullare (ammazzandolo) chi non cede
il passo in battaglia o, più in generale, non si sottomette: una procedura
di fronte alla quale, non c’è santi, tutte le altre minacce possibili
perdono di importanza. Che si possa fare la guerra lealmente, senza
violare i diritti umani e rispettando una qualche legge internazionale,
è una pretesa che rivela in se stessa la propria incommensurabile futilità.
I tempi dei cavalieri che si affrontavano in leale tenzone manifestando
anzitutto la stima reciproca sono passati da un pezzo, anzi, non sono mai
esistiti. Oggi la guerra si fa in nome di una propria conclamata
superiorità morale, civile e democratica sull’avversario, che ci si propone,
per principio, di abbattere. Difficile, a questo punto, stare a sindacare
il lecito e l’illecito nelle azioni dei combattenti.
Ma di tutto ciò il ministro della Difesa, come
i suoi colleghi, non dà segno di volersi accorgere. Lui se ne sta
lì, indossando la corazza della propria asserita ignoranza con la stessa
disinvoltura con la quale ostenta il suo bel completo di taglio inglese.
Le brutte cose, a suo avviso, le fanno solo gli altri e quando gli
si fa notare che quegli altri sono, in definiva, gli amici e gli alleati
che il governo propone al paese, si limita a ribattere, con eleganti preterizioni
retoriche, che anche gli amici dei suoi avversari, a volte, si comportano
male. Come a dire che, nel grande gioco del massacro internazionale,
una mano lava l’altra.
Bah. Ogni paese ha i governanti che merita
e quando per coprire un posto importante si trova un galantuomo, per di
più di aspetto piuttosto decorativo, non si può che compiacersene.
Certo, se ogni tanto riuscisse a prodursi in qualcosa d’altro che non
lo scarico delle responsabilità, saremmo ancora più contenti. Ma
cosa ci possiamo fare? In fondo, siamo in guerra.
16.05.’04