Nessuno si è emozionato particolarmente,
in città, alla notizia che il comune, dopo mesi di futili tira e molla,
ha finalmente deciso di imporre, a partire dal prossimo gennaio, una tariffa
d’ingresso per i musei civici, una misura che certo incrementerà la frequenza
in quei luoghi di cultura nella stessa misura in cui l’aumento del biglietto
del tram ha incoraggiato, a suo tempo, l’uso dei mezzi pubblici.
I cittadini avranno pensato che c’è ben altro per cui protestare, e poi
la cifra è modesta (non più di tre euro) e grazie alla dura battaglia delle
opposizioni si prevedono fior di esoneri per gli under 18 e gli iscritti
alle scuole medie superiori, due categorie i cui esponenti, si sa, usano
affluire in massa alle gallerie civiche, per cui si può fare, per una volta,
buon viso a cattivo gioco. Tra le nefandezze della giunta Albertini,
l’imposizione di questo piccolo tributo non sembra la più grave, né la
più fastidiosa.
Io,
comunque, un poco ci sono restato male. Non perché sia un frequentatore
accanito delle gallerie comunali, per carità: sono anni che non rivedo
la Pietà Rondinini e se avessi vaghezza potrei permettermi – credo –
l’esborso. Ma il libero ingresso ai musei, almeno a quelli di proprietà
comunale, perché a Brera ti mazzolavano già mica male e le istituzioni
private, Ambrosiana compresa, fanno peggio, erano, per i nostri concittadini,
l’ultimo di una serie di piccoli privilegi legati a uno stile di governo
cittadino, a un modo di concepire l’amministrazione pubblica, passato
irrimediabilmente di moda. Erano il ricordo dei tempi in cui la cultura
veniva considerata un diritto per tutti e quello della formazione intellettuale
dei non abbienti, come si diceva, un servizio come tutti gli altri. I
tempi delle scuole civiche, dell’Umanitaria, delle lezioni di storia al
Lirico, dei corsi di lingue, musica e teatro per poche lire, dei finanziamenti
pubblici ai circoli culturali (la Casa della Cultura, certo, ma anche il
Turati, il De Amicis, il Perini e tanti altri) che così potevano aprire
liberamente a tutti le loro iniziative. Niente di speciale, eh, ma
erano tutte manifestazioni di quella cultura riformista, un po’ paternalista,
ma tutt’altro che gretta, che caratterizzava la nostra città.
Oggi, evidentemente, dei non abbienti
non si cura nessuno, il danaro è ormai ufficialmente l’unico metro di
valutazione di cose e persone e il comune considererebbe offensiva l’idea
stessa di non lucrare un tot sulle refezioni dei bambini delle materne
o sulle frequenze dei campi sportivi. Non c’è nulla di più lontano
dalle consuetudini di questa classe dirigente della cultura del gratuito,
della prospettiva di un utile non immediatamente monetizzabile. Per
loro la qualità stessa dell’offerta culturale si misura sulle cifre che
gli utenti sono disporsi a sborsare per accedervi. Chi considera
il bilancio cittadino con i criteri di un bottegaio di periferia, chi ha
eretto a dogma il principio di far pagare a caro prezzo l’erogazione dei
servizi essenziali e di scaricare quelli meno essenziali sulla disponibilità
di improbabili sponsor, non può certo capire la logica in base alla quale
ai musei e alle pinacoteche si dovrebbe poter accedere a gratis.
Facili accuse, ribatterebbero, forse,
a Palazzo Marino, ma il problema è oggettivo ed è, appunto, quello dei
soldi. A casse vuote, il comune, con tutte le buone intenzioni del
mondo, poco può fare. E visto che le casse, per un motivo o per l’altro,
sono vuote che più non si può, bisogna saper imporre delle priorità.
Sarà vero, figuriamoci. Eppure
non si ha proprio l’impressione che i nostri amministratori siano, finanziariamente
parlando, così alla frutta. Quando vogliono spendono, eccome, e non
sempre in capitoli di precedenza assoluta. Pensate un po’ a quanto
ci stanno costando, diciamo, le opere di distruzione e ricostruzione della
Scala. Possiamo pensare ciò che vogliamo sulla necessità di avviare
quel restauro (chiamiamolo così) e sull’idea di schiacciare la fabbrica
del Piermarini sotto un ellissoide di marmo rosa alto non so quante decine
di metri – del resto pare che il Piermarini stesso sia apparso in sogno
all’architetto Botta per assicurargli che andava bene così – ma è poco
ma sicuro che per quei lavori non si è badato a spese. Solo il più
scialacquatore dei prodighi poteva concepire l’idea di costruire ex novo,
come sede provvisoria, un intero teatro, con l’idea di buttarlo via (perché
questo, stringi stringi, è il destino del Teatro degli Arcimboldi) dopo
tre o quattro anni. Ma volete mettere il lustro, la fama che i nostri
pavoni si aspettano dalla soluzione del problema Scala? Quando un’iniziativa
promette, come si dice, un cospicuo ritorno d’immagine, i soldi si trovano
sempre.
In
realtà, questo dell’immagine è il tallone di Achille (o la fissazione),
non che della giunta, di tutto il ceto politico che l’ha espressa. Sono
incapaci, quelle brave persone, di attendere all’amministrazione ordinaria,
ai mille problemi che affliggono quotidianamente una città medio grande
come la nostra, e lo sono, soprattutto, per disinteresse. Sono troppo
presi a inseguire, pur nella loro inettitudine, i grandi progetti, le mirabilia
urbis da cui si aspettano fama e voti e, se pure non ne hanno ancora realizzato
una che sia una, demolizioni a parte, si sono convinti da soli di meritare
ogni applauso. Solo due giorni fa, un Alessandro Scarselli, un omonimo,
credo, che si autodefinisce Coordinatore delle Comunicazioni dell’Amministrazione
Civica (con quattro maiuscole), ha avuto il coraggio di scrivere alla rubrica
delle lettere dei lettori di un importante quotidiano per lamentarsi, con
pesante ironia, che vi ci si pubblichino solo comunicazioni di cittadini
scontenti. Come? Non è forse Milano la terza città d’Europa
per ricchezza prodotta e benessere diffuso? E dove sono, allora,
le lodi? Qualcuno le ha, evidentemente nascoste. Come se ricchezza
e benessere, per non dire delle varie “eccellenze” che, a quanto pare,
caratterizzano la città (e mi piacerebbe sapere quali sono) fossero merito
loro.
I
cittadini, in realtà, anche quelli al di fuori della cerchia ristretta
di chi scrive lettere di protesta ai giornali, sono più intelligenti di
quanto pensi Scarselli . Confido, perciò, che non cadranno nell’ultimo,
piccolo inganno che gli è stato teso. Perché, per tornare al nostro
argomento iniziale, quel biglietto di ingresso ai musei i geni delle relazioni
pubbliche cittadine hanno deciso di non chiamarlo così. Date un’occhiata
ai giornali che ne parlano e vedrete che lo si definisce ovunque un ticket.
Un termine inglese che corrisponde perfettamente al nostro “biglietto”,
per cui non ci dovrebbe essere proprio nessun motivo per impiegarlo, a
meno che, forse, non ci si voglia nascondere dietro l’uso invalso in farmacia
e altrove di definire ticket quella cifra aggiuntiva che al cittadino si
chiede per ritirare un prodotto di ben più alto valore. Non una tariffa,
dunque, né un balzello, si applica ai milanesi: gli si chiede semplicemente
un contributo, di cui sarebbe futile lamentarsi. Be’, da questa
commuovente fiducia nel fatto che le fregature siano più sopportabili se
presentate in lingua straniera, mi sembra brillare come non mai tutto il
provincialismo, tutta la meschinità dei nostri amministratori.
16.11.’03