Fregature in lingua

La caccia | Trasmessa il: 11/16/2003



Nessuno si è emozionato particolarmente, in città, alla notizia che il comune, dopo mesi di futili tira e molla, ha finalmente deciso di imporre, a partire dal prossimo gennaio, una tariffa d’ingresso per i musei civici, una misura che certo incrementerà la frequenza in quei luoghi di cultura nella stessa misura in cui l’aumento del biglietto del tram ha incoraggiato, a suo tempo, l’uso dei mezzi pubblici.   I cittadini avranno pensato che c’è ben altro per cui protestare, e poi la cifra è modesta (non più di tre euro) e grazie alla dura battaglia delle opposizioni si prevedono fior di esoneri per gli under 18 e gli iscritti alle scuole medie superiori, due categorie i cui esponenti, si sa, usano affluire in massa alle gallerie civiche, per cui si può fare, per una volta, buon viso a cattivo gioco.   Tra le nefandezze della giunta Albertini, l’imposizione di questo piccolo tributo non sembra la più grave, né la più fastidiosa.
        Io, comunque, un poco ci sono restato male.  Non perché sia un frequentatore accanito delle gallerie comunali, per carità: sono anni che non rivedo la Pietà Rondinini e se avessi vaghezza potrei permettermi – credo – l’esborso.  Ma il libero ingresso ai musei, almeno a quelli di proprietà comunale, perché a Brera ti mazzolavano già mica male e le istituzioni private, Ambrosiana compresa, fanno peggio, erano, per i nostri concittadini, l’ultimo di una serie di piccoli privilegi legati a uno stile di governo cittadino, a un modo di concepire l’amministrazione pubblica, passato irrimediabilmente di moda.  Erano il ricordo dei tempi in cui la cultura veniva considerata un diritto per tutti e quello della formazione intellettuale dei non abbienti, come si diceva, un servizio come tutti gli altri.  I tempi delle scuole civiche, dell’Umanitaria, delle lezioni di storia al Lirico, dei corsi di lingue, musica e teatro per poche lire, dei finanziamenti pubblici ai circoli culturali (la Casa della Cultura, certo, ma anche il Turati, il De Amicis, il Perini e tanti altri) che così potevano aprire liberamente a tutti le loro iniziative.  Niente di speciale, eh, ma erano tutte manifestazioni di quella cultura riformista, un po’ paternalista, ma tutt’altro che gretta, che caratterizzava la nostra città.
Oggi, evidentemente, dei non abbienti non si cura nessuno, il danaro è ormai ufficialmente l’unico metro di valutazione di cose e persone e il comune considererebbe offensiva l’idea stessa di non lucrare un tot sulle refezioni dei bambini delle materne o sulle frequenze dei campi sportivi.  Non c’è nulla di più lontano dalle consuetudini di questa classe dirigente della cultura del gratuito, della prospettiva di un utile non immediatamente monetizzabile.  Per loro la qualità stessa dell’offerta culturale si misura sulle cifre che gli utenti sono disporsi a sborsare per accedervi.  Chi considera il bilancio cittadino con i criteri di un bottegaio di periferia, chi ha eretto a dogma il principio di far pagare a caro prezzo l’erogazione dei servizi essenziali e di scaricare quelli meno essenziali sulla disponibilità di improbabili sponsor, non può certo capire la logica in base alla quale ai musei e alle pinacoteche si dovrebbe poter accedere a gratis.
Facili accuse, ribatterebbero, forse, a Palazzo Marino, ma il problema è oggettivo ed è, appunto, quello dei soldi.  A casse vuote, il comune, con tutte le buone intenzioni del mondo, poco può fare.  E visto che le casse, per un motivo o per l’altro, sono vuote che più non si può, bisogna saper imporre delle priorità.
Sarà vero, figuriamoci.  Eppure non si ha proprio l’impressione che i nostri amministratori siano, finanziariamente parlando, così alla frutta.  Quando vogliono spendono, eccome, e non sempre in capitoli di precedenza assoluta.  Pensate un po’ a quanto ci stanno costando, diciamo, le opere di distruzione e ricostruzione della Scala.  Possiamo pensare ciò che vogliamo sulla necessità di avviare quel restauro (chiamiamolo così) e sull’idea di schiacciare la fabbrica del Piermarini sotto un ellissoide di marmo rosa alto non so quante decine di metri – del resto pare che il Piermarini stesso sia apparso in sogno all’architetto Botta per assicurargli che andava bene così – ma è poco ma sicuro che per quei lavori non si è badato a spese.  Solo il più scialacquatore dei prodighi poteva concepire l’idea di costruire ex novo, come sede provvisoria, un intero teatro, con l’idea di buttarlo via (perché questo, stringi stringi, è il destino del Teatro degli Arcimboldi) dopo tre o quattro anni.  Ma volete mettere il lustro, la fama che i nostri pavoni si aspettano dalla soluzione del problema Scala?  Quando un’iniziativa promette, come si dice, un cospicuo ritorno d’immagine, i soldi si trovano sempre.
        In realtà, questo dell’immagine è il tallone di Achille (o la fissazione), non che della giunta, di tutto il ceto politico che l’ha espressa.  Sono incapaci, quelle brave persone, di attendere all’amministrazione ordinaria, ai mille problemi che affliggono quotidianamente una città medio grande come la nostra, e lo sono, soprattutto, per disinteresse.  Sono troppo presi a inseguire, pur nella loro inettitudine, i grandi progetti, le mirabilia urbis da cui si aspettano fama e voti e, se pure non ne hanno ancora realizzato una che sia una, demolizioni a parte, si sono convinti da soli di meritare ogni applauso.  Solo due giorni fa, un Alessandro Scarselli, un omonimo, credo, che si autodefinisce Coordinatore delle Comunicazioni dell’Amministrazione Civica (con quattro maiuscole), ha avuto il coraggio di scrivere alla rubrica delle lettere dei lettori di un importante quotidiano per lamentarsi, con pesante ironia, che vi ci si pubblichino solo comunicazioni di cittadini scontenti.  Come?  Non è forse Milano la terza città d’Europa per ricchezza prodotta e benessere diffuso?  E dove sono, allora, le lodi?  Qualcuno le ha, evidentemente nascoste.  Come se ricchezza e benessere, per non dire delle varie “eccellenze” che, a quanto pare, caratterizzano la città (e mi piacerebbe sapere quali sono) fossero merito loro.
        I cittadini, in realtà, anche quelli al di fuori della cerchia ristretta di chi scrive lettere di protesta ai giornali, sono più intelligenti di quanto pensi Scarselli .  Confido, perciò, che non cadranno nell’ultimo, piccolo inganno che gli è stato teso.  Perché, per tornare al nostro argomento iniziale, quel biglietto di ingresso ai musei i geni delle relazioni pubbliche cittadine hanno deciso di non chiamarlo così.  Date un’occhiata ai giornali che ne parlano e vedrete che lo si definisce ovunque un ticket.  Un termine inglese che corrisponde perfettamente al nostro “biglietto”, per cui non ci dovrebbe essere proprio nessun motivo per impiegarlo, a meno che, forse, non ci si voglia nascondere dietro l’uso invalso in farmacia e altrove di definire ticket quella cifra aggiuntiva che al cittadino si chiede per ritirare un prodotto di ben più alto valore.  Non una tariffa, dunque, né un balzello, si applica ai milanesi: gli si chiede semplicemente un contributo, di cui sarebbe futile lamentarsi.  Be’, da questa commuovente fiducia nel fatto che le fregature siano più sopportabili se presentate in lingua straniera, mi sembra brillare come non mai tutto il provincialismo, tutta la meschinità dei nostri amministratori.

16.11.’03